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Flaminio Gualdoni
Leggi i suoi articoli«Xe pèso el tacòn del buso». Cosa meglio di questa espressione dell’antica saggezza popolare padovana può esprimere il marasma della vicenda del Prato della Valle di Padova? Ovvero: come mettere le mani nella questione della straordinaria ellisse di sculture che dal Settecento se ne sta lì, a far bella mostra di sé, nello spazio ampio e strano che il vecchio Andrea Memmo, patrizio veneziano e uomo di grandi idee, trovò in condizioni pietose e ci ha lasciato così come lo vediamo, all’incirca, oggi?
Dunque, la questione non è di conservazione del bene, che alla fin fine, vista l’età, non se la passa neanche male, ma della necessità (?) di integrare due plinti lasciati vuoti dai danni della storia: qui, in particolare, quelli fatti dalle truppe napoleoniche, alle quali erano antipatici i dogi veneziani e ne abbatterono le statue. Dunque, arriviamo noi oggi e ci arroghiamo il diritto di intervenire a «completare» una cosa che da più di due secoli sta bene così com’è, a parte il fatto che la pietra di Vicenza, con cui le sculture sono fatte, non è proprio un materiale «aere perennius».
Per di più, ribaltando il sentire prevalente oggi, abbiamo una possibilità straordinaria, quella di attuare non la «cancel culture» ma una forma simmetrica di «add culture», aggiungere invece che levare, nella fattispecie risarcire la componente femminile della nostra società aggiungendo alla pletora di «uomini illustri» qui raffigurati, anche un paio di «donne illustri»: e il fatto che, comunque, sarebbero due miserelle contro settantotto uomini purtroppo non fa scattare il senso del ridicolo di nessuno. La serie degli uomini illustri raffigurati in Prato della Valle è molto legata alle glorie cittadine, da Galileo Galilei ad Antonio Canova: chi è padovano, e chi in città ha fatto cose egregie.
Dunque, l’ideona è stata cominciare mettendo lì un ritratto di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, prima donna a laurearsi nell’ateneo padovano, peraltro ampiamente commemorata nella sede dell’Università. Ai fulgidi adepti dell’inedita «add culture» non passa nemmeno per un attimo nel cervello il dubbio che, se un monumento storico è nato così, ci sono ragioni, oltre al buon senso e al rispetto dei beni artistici che dovrebbe essere normale, che prevalgono su qualsiasi ansia risarcitoria: e in generale, la regola dei monumenti storici è che vanno trattati almeno come i gabinetti pubblici, cioè vanno lasciati così come si son trovati.
E poi, a voler guardare il pelo nell’uovo, fino ad oggi i settantotto esponenti del sesso maschile, che son stati lì un sacco di tempo, andavano bene così e nessuno si lamentava. Oggi non vanno più bene: ma non è che se adesso metti una donna non sembra che stai facendo una roba che suona come una riserva indiana. E poi, mettiamo, se domani esponenti Lgbtq+ ecc. cominciassero a rivendicare anche loro cosa facciamo, aggiungiamo un altro anello di statue a quelli già esistenti? Sarebbe, per dire con un altro detto caro all’eloquio patavino: «Troppa grazia, sant’Antonio!».
Facciamo così. Facciamo che i monumenti antichi li lasciamo stare, e intanto magari ci poniamo seriamente il problema del perché e del per chi li facciamo, i monumenti, e se vale ancora la pena di perpetrare ulteriori danni all’estetica urbana, in aggiunta a tutte le vaccate che ordinariamente siamo in grado di produrre.

Prato della Valle a Padova © © Foto Hannelore
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