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Franco Fanelli
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I rapporti tra arte antica e arte contemporanea restano tesi soltanto nei pamphlet di Jean Clair e Marc Fumaroli, inflessibili censori dell’impunità con cui il brutto, il kitsch, l’insignificante e l’insipiente occupano tanta parte della scena internazionale. In realtà le due fanno comunella da un bel po’ di tempo. A turno, l’una tira la volata all’altra: nelle fiere d’antiquariato Fontana e Jeff Koons, oggi più popolari di Mattia Preti o Sebastiano Ricci tra i collezionisti, garantiscono, abbinati ai loro colleghi antichi, il pienone negli stand; l’ouverture della Biennale di Venezia diretta da Bice Curiger, al contrario, era dedicata a Tintoretto.
Musei d’archeologia e d’arte antica (da Capodimonte al Louvre) da tempo accolgono mostre d’arte d’oggi, mentre l’ex industriale Centrale Montemartini di Roma è la casa delle sculture dei Musei Capitolini. Ovviamente, mercanti, curatori, artisti e direttori di museo spesso devono profondersi in arrischiate motivazioni teoriche e filologiche sulle ragioni di queste liaison e in genere riescono a intortare i più candidi tra i visitatori.
In sede critica, l’abbinata divide gli animi. In una doppia pagina di «la Repubblica» lo storico dell’arte Tomaso Montanari stronca la mostra «Arte tra le rovine», aperta fino al 18 settembre tra le vestigia del Palatino, dove espongono i contemporanei della Nomas Foundation, da Pascale Marthine Tayou a Kounellis, da Loris Cecchini a Sislej Xhafa. Montanari stigmatizza l’uso dell’antico come mero set, cosa che, banalizzandone la millenaria presenza, lo vampirizzerebbe portandolo a morte sicura. Richard Heuzé, inviato di «Le Monde», al contrario, saluta entusiasticamente l’iniziativa, forse perché è del francese Buren l’opera più vistosa. In questo caso è l’antico che viene messo al servizio del contemporaneo. È noto, beninteso, che l’efficacia scenografica di Roma e delle sue vestigia venne ben compresa sin dall’età repubblicana, se i potenti, per i loro discorsi, sceglievano scorci e luoghi particolarmente suggestivi per l’uditorio, con un autentico istinto pretelevisivo, altro che i libri finti o il predellino di Berlusconi.
Allo stesso modo, il potere dell’arte (ossia i mercanti e i collezionisti) sfila oggi a Versailles e quello della moda in piazza di Spagna. Né si può negare che l’arte contemporanea ci assedi e spesso ci annoi ormai ovunque e in ogni latitudine, dalle fiere e dalle biennali ubique e no-stop alle librerie, da Fabio Fazio alla fiction «Un posto al sole», dalle pubblicità alle infinite mostre prodotte in sedi e con fondi pubblici: dunque, perché occupare anche i siti archeologici, ultima possibile oasi per chi vuol cogliere il sussurro del tempo e della memoria?
Analizzando la questione da un’altra visuale, bisogna ammettere che la presunta invasione barbarica o l’«uso improprio» dei siti storici riservano qualche vantaggio per gli antichisti e per l’antico: il Castello di Rivoli risorse dalle sue rovine grazie alla sua destinazione a museo d’arte contemporanea e a un restauro illuminato. E a Roma, complice la mostra di cui si parla, il visitatore può accedere allo Stadio Palatino, in genere visibile soltanto da una terrazza (è pur vero che se lo Stato se ne prendesse seriamente cura, si dovrebbe poter godere delle bellezze del nostro Paese senza l’episodico passepartout dell’arte del presente).
Accadde quasi lo stesso, nel 2007, con la mostra «Luce di Pietra», che fece scoprire al pubblico i recessi di Palazzo Farnese, come i mosaici di epoca domizianea, dov’era allestita un’opera di Elisabetta Benassi. Con tutto il rispetto per gli illustri artisti che esponevano in quel luogo non visitabile se non attraverso specifica domanda, essendo, come noto, sede dell’Ambasciata di Francia, diciamo la verità: molti di noi pensarono di approfittare del «lasciapassare» fornito dalla mostra per ammirare in notturna i celebri affreschi dei Carracci, che sino ad allora avevamo visto soltanto nelle illustrazioni dei «Maestri del colore». Ma in questo caso la combutta tra antico e contemporaneo fu oltremodo irritante. Saliti col fiatone alla Galleria, scoprimmo che si trattava soltanto di un’esca: una modesta e assai pompière opera del francese Claude Lévêque consisteva in un frustrante gioco di veli che, oscurando gli dei, i satiri e i telamoni dei Carracci, impose a tutti noi un atroce coitus interruptus.
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