Jenny Dogliani
Leggi i suoi articoliGiampaolo Bertozzi (Borgo Tossignano, Bologna, 1957) e Stefano Dal Monte Casoni (Lugo di Romagna, Ravenna, 1961) si sono conosciuti sui banchi di scuola, all’Istituto Statale d’Arte per la Ceramica di Faenza. È nata una profonda amicizia che alla fine degli studi, proseguiti per entrambi all’Accademia di Belle Arti di Bologna, è confluita in un progetto di lavoro comune, che prosegue ininterrotto.
La società Bertozzi & Casoni, costituita a Imola nel 1980, è il marchio di una carriera costellata di successi che ha portato i due artisti della ceramica a rappresentare l’Italia alla 53ma e 54ma Biennale di Venezia, a numerose mostre personali in giro per il mondo e persino all’apertura di un loro museo, a Sassuolo nel 2017.
Con Giampaolo Bertozzi ripercorriamo le tappe di questa grande avventura artistica e professionale.
Cominciamo dalla vostra formazione.
L’Istituto Statale d’Arte per la Ceramica di Faenza era una scuola di massima eccellenza: si imparava l’arte ceramica e si usciva con un mestiere. Lì abbiamo anche studiato la storia dell’arte e quella della ceramica grazie al vicino Museo Internazionale della Ceramica. All’Accademia di Belle Arti di Bologna io ho frequentato i corsi di Pittura e Scultura e Casoni quello di Scenografia. Nel 1980 abbiamo acquisito un capannone e fondato una società col nome collettivo, dettagliando che cosa facevamo, che cosa si spendeva e che cosa si investiva. Volevamo creare un lavoro che ci consentisse di esprimere quello che avevamo in testa e così è stato.
Un approccio un po’ anomalo nel mondo dell’arte.
L’arte è anche un mestiere, è un sistema fatto di tante forze: galleristi, artisti, editori, curatori, assistenti ecc. Abbiamo sempre avuto un inquadramento da azienda, oggi siamo una Srl.
Perché avete scelto la ceramica?
La ceramica racchiude l’idea plastica, scultorea e pittorica del manufatto d’arte.
Quarant’anni di carriera. Quali sono stati i momenti più importanti?
L’incontro fondamentale è con Gian Enzo Sperone nel 1996-97. Gli è piaciuto l’aspetto artigianale e concettuale della nostra arte, che è una riflessione sul contemporaneo. Abbiamo esposto nella galleria di Angela Westwater e Sperone a New York che ci ha dato visibilità. Il momento più importante è stato la partecipazione alla Biennale di Venezia nel 2009: un onore incredibile e una bella sfida. Poi le mostre a Ca’ Pesaro (2007), Palazzo Te (2014), al MAMbo (2015), alla Galleria d’Arte Moderna di Palermo (2016) e molte altre. Ma il percorso di un artista non è solo un percorso espositivo, è un percorso di crescita per capire dove l’arte e il pensiero sull’arte lo possono portare.
Come nasce un lavoro di Bertozzi & Casoni?
I nostri lavori durano anni. Non seguiamo i tempi del mercato dell’arte, andiamo dietro al lavoro con grande dedizione, anche 8, 10, 12 ore al giorno. Io lavoro sulla mia opera e Stefano sulla sua. Ne parliamo e decidiamo il da farsi. Abbiamo una grande voracità visiva. È tutto estemporaneo. Non c’è un disegno di preparazione dove studiamo i volumi e il movimento, partiamo sempre dal modello. Per esempio, l’idea dell’orso polare ci è venuta guardando una piccola foto di Ercole che combatte con un cervo. I disegni caso mai vengono fatti dopo. È una folgorazione, una visione che si mette insieme lavorandoci. C’è la forma scultorea modellata a mano, le varie rifiniture degli stampi fino al modello definitivo per la cottura, poi si aggiungono parti in bronzo, argento, dipende.
Che tiratura hanno i vostri lavori?
Sono tutti pezzi unici. La lavorazione è interamente fatta a mano, interveniamo manualmente anche sugli stampi, difficile replicare. Ci sono dei filoni, di cestini per esempio, ce n’è una quarantina sul mercato.
Avete sperimentato molte tecniche?
Siamo partiti dalla maiolica tradizionale. Nel 1999-2000 siamo passati a tecniche e materiali più industriali: stampi in silicone, grès, terre fini ventilate che danno esiti più raffinati, tecniche pittoriche come la fotoceramica che risulta più oggettiva e realistica (e non iperrealistica come molto spesso si dice). Curiosiamo nella chimica della ceramica: il piombo, per esempio, bandito per motivi di salute, è stato soppiantato dal boro, che è un fondente più aggressivo.
Quali sono i vostri riferimenti culturali?
Sono molto ampi, dalla Pop art americana alla «Merda d’artista» di Manzoni. Spesso ci dicono che le nostre sparecchiature fanno l’occhiolino a Daniel Spoerri, ma in realtà abbiamo sempre pensato a Bernard Palissy (1510-89): nel Cinquecento molti artisti ceramisti avevano un approccio importante a questo lavoro e hanno influito sui nostri memento mori e sulle vanitas. Abbiamo realizzato una versione ceramica dei vasi di Morandi, le quattro stagioni ispirate a Giuseppe Arcimboldo, contaminandole con sigarette, pillole, bombe a mano e aggiungendo la quinta stagione, quella dell’uomo contemporaneo, fatta di rifiuti e scarti. Usiamo tutti i riferimenti culturali, dal mondo dell’arte a quello della strada. Cerchiamo il rinnovamento nella tradizione.
Nel 2017 viene aperto il Museo Bertozzi & Casoni. Com’è andata?
È stata un’idea di Franco Stefani, un amico collezionista che ci segue da decenni. Ha acquistato e restaurato una Cavallerizza Ducale a Sassuolo e l’ha immaginata per noi. Non è facile per un artista chiamare museo uno spazio dov’è raccolto il suo lavoro più significativo. C’è voluto tempo per capire che è un’opportunità.
Quali opere sono esposte?
Una ventina, ripercorrono le date più significative. Le «Brillo» del 2016, una parte dei tubi «Composizione scomposizione» presentati a New York nel 2010. «Scegli il Paradiso» del 1997, l’unica nostra opera realizzata a quattro mani. È una Madonna tradizionale in maiolica dipinta. È rappresentata mentre falcia da una zolla i fiori che le rifioriscono sul manto, è come un mandala. A questa è seguita la «Madonna scheletrita» del 2008. Qui la Madonna è uno scheletro: ha le sembianze della morte. Taglia una zolla fiorita e i fiori le si incastrano tra le ossa di argento massiccio. La zolla del 1997 era un prelievo dal Paradiso, quella del 2008 è un prelievo contemporaneo, pieno di rifiuti. Poi c’è «Composizione infinita non finita» della Biennale di Venezia del 2009: 509 cassette di pronto soccorso con riferimenti culturali alla vita dell’uomo contemporaneo. È dedicata al dolore che il genere umano attraversa, come la paura della morte e della migrazione, mitigato dalla simbologia dell’arte, dalla poesia e dalla cultura.
Bellezza e sofferenza sono costanti del vostro lavoro.
È un dato del nostro sentire. Osserviamo quello che l’uomo lascia, anche se l’uomo non è mai raffigurato direttamente, ma solo attraverso simboli: la Madonna, Pinocchio, gli animali, la testa di un gorilla come quella di Giovanni Battista. Il fauno impiccato, a cui lavoriamo da 23 anni, forse sarà pronto nel 2021, ci sono piccoli dettagli che non ci sono ancora chiari, come il pelo delle zampe.
Altri progetti in lavorazione?
Un progetto sulla Divina Commedia, un lavoro gigantesco che richiede uno sforzo economico importante. Il secondo catalogo ragionato edito da Allemandi, il primo va dal 1980 al 2010, questo dal 1997 ad oggi. Fino al 7 febbraio abbiamo una personale nella Chiesa di Sant’Agostino a Pietrasanta, che proseguirà il 21 novembre con un’estensione nel Convento di Sant’Agostino. Il mese prossimo, infine, nel Museo Bertozzi & Casoni vorremmo fare una mostra sui vasi nella storia dell’arte. Una decina di reinterpretazioni di vasi dipinti da Van Gogh, Gauguin, Odilon Redon, Henri Rousseau il Doganiere.
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