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«Sans titre. Série Homs» (2020), di Mathieu Pernot. © Adagp, Parigi, 2023

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«Sans titre. Série Homs» (2020), di Mathieu Pernot. © Adagp, Parigi, 2023

Tutto ciò che ci raccontano le rovine al Musée des Beaux-Arts di Lione

Le eloquenti tracce delle civiltà passate o più recenti, portatrici, ognuna a suo modo, di una memoria collettiva

Luana De Micco

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Le vestigia monumentali di antiche civiltà, preziosamente conservate, visitate, restaurate, studiate, i piccoli frammenti del passato rinvenuti nei siti archeologici, o ancora i palazzi ridotti dai bombardamenti a scheletri vuoti nelle zone di guerra, testimoni desolati dei conflitti moderni. In tutti questi casi siamo di fronte a «rovine», testimoni di una storia lontana o più recente, portatrici, ognuna a suo modo, di una memoria collettiva.

Si occupa di questo tema una mostra del Mba-Musée des Beaux-Arts di Lione dal titolo «Le forme della rovina», organizzata dal primo dicembre al 3 marzo 2024, e curata da Alain Schnapp, professore emerito all’Università di Paris I e autore di una Storia universale delle rovine, con Sylvie Ramond, direttrice del Mba. La mostra, spiega il museo, «investiga tanto le tradizioni plurisecolari, che hanno permesso in Occidente e in Oriente l’apparizione di una cultura delle rovine monumentali diventata dominante, quanto le società che ignorano persino la nozione di monumento». Gli esperti si interrogano anche «sulle pratiche di memoria degli indiani, degli africani e degli oceaniani che privilegiano una sorta di patto con la Natura piuttosto che la sua sottomissione ad architetture grandiose».

Il percorso di visita si articola in quattro sezioni: la memoria e l’oblio, l’equilibrio tra natura e cultura, il legame tra materiale e immateriale, la tensione tra presente e futuro. La mostra è una sorta di «storia» delle rovine e dell’atteggiamento dei popoli nei confronti delle tracce lasciate da civiltà passate, dall’ammirazione dei Greci per i palazzi d’Assiria alla curiosità per il mondo greco-romano affermatasi durante il Rinascimento, dalla venerazione dei Romani per le opere d’arte degli antichi Greci (che non cessarono di copiare) all’interesse per le produzioni artistiche d’Africa, Asia e Oceania che si sviluppò in Occidente a partire dal Settecento.
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Tra le opere più antiche esposte, una scena erotica del I secolo d.C. rinvenuta sul sito di Ercolano, in arrivo dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, e un bassorilievo funerario d’epoca romana (II secolo d.C.) da Palmira, in Siria, conservato nel museo di Lione. Dello stesso museo lionese è «La fuga in Egitto» (1657) di Nicolas Poussin. La Bibliothèque Nationale de France di Parigi ha prestato una toccante acquaforte di Goya, tratta dalla serie «I disastri della guerra» (1810-12). Sono poi esposti un romantico paesaggio di rovine di Johann Oswald Harms del 1673 dalla Hamburger Kunsthalle, una tela di Hubert Robert del Musée de Valence e un disegno a inchiostro bruno di Victor Hugo, «La Torque en 1835», realizzata nel 1876 per illustrare il romanzo Novantatré.

Tra le opere più recenti, uno scatto del fotografo francese Mathieu Pernot della serie «Homs» (2020) e il film di Randa Maddah «Light Horizon» (2012), girato tra le rovine del villaggio di Ain Fit, sulle alture del Golan siriano, dov’è nata. L’obiettivo della mostra, spiega ancora il museo lionese, è di «interrogare le società attraverso la storia e, allo stesso tempo, di affrontare il lavoro svolto dagli artisti contemporanei nella loro volontà di documentare e interpretare le rovine delle nostre società industriali e di immaginare il loro futuro».

Luana De Micco, 29 novembre 2023 | © Riproduzione riservata

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