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Stefano Causa
Leggi i suoi articoliMorto Armani in queste ore, tra social media e antichi organi di informazione, si è accumulata più letteratura su di lui che negli ultimi quaranta o cinquant’anni. Alcuni filoni privilegiati di discussione che speravamo defunti hanno subito ripreso vita (la moda è arte? gli stilisti sono sarti o sono come Michelangelo e Raffaello?). In qualche modo lo scaffale, specialmente quello boomer di Facebook, va anche riempito. Ma alla fine (o al principio) i soli cui si sarebbe dovuto chiedere di questo immenso talento piacentino di adozione milanese sono gli storici d’arte; in modo particolare, quelli cresciuti, anche sotto le forbici di Armani, nella seconda metà del secolo scorso. Quelli che hanno stampato in mente le sequenze in cui Richard Gere in «American Gigolò» del 1980 passa in rassegna giacche, camicie e cravatte come se stesse osservando i faldoni dell’Istituto Tedesco a Firenze o i capolavori della Frick Collection.
Ma si sa che gli storici d’arte vengono resuscitati solo in particolari occasioni caravaggesche e Armani piuttosto che allievo del Caravaggio sembra l’ultimo erede legittimo di Giorgio Morandi (stesse «nuance», stessa capacità di ordinare gli oggetti e il mondo); o, al limite poteva ricordare le «tache» di quel Nicolas de Staël, morto nel 1955 (e dalle «tache» alle tasche è questione di un minimo scarto sillabico che sarebbe piaciuto agli estensori della Pagina della Sfinge della «Settimana Enigmistica»). Insomma, sarebbe bastato interpellare qualche storico d’arte per dissipare gli equivoci su Armani che ancora si affacciano in questo Paese oggi così intellettualmente dissestato.
Innanzitutto la portata del suo talento: immensa, dilagante. Se, come tutti siamo disposti a credere, il ’500 è il secolo di Tiziano; se il ’700 è, piaccia o meno, il secolo di Francesco Solimena (che resse le sorti della pittura europea, tra Torino, Vienna e la Francia), senza muoversi da Napoli se non per sporadiche puntate a Roma. Se il ’900 è farina del sacco di Cezanne, capace di trasformare la prima metà del secolo in un subcontinente di quello precedente; allora non vi è dubbio che il secondo ’900 sia il secolo di Armani. Si potrà decidere, naturalmente, a chi assegnare, almeno per la pittura, la palma per la prima metà (a de Chirico, a Morandi o a Boccioni?). Ma per la fine del ’900 non vi sono dubbi. Soltanto un altro potrebbe aspirare alla stessa importanza, non fosse altro perché il suo cognome è diventato un aggettivo: ed è Fellini. Anche Armani è diventato un aggettivo (e nessuno dei suoi compagni di strada, pur grandissimi, avrebbe potuto pretendere a tanto). Armani è ritorno all’ordine. Armani è rinuncia stilistica e, dunque, culturale a ogni tentazione di volgarità. Armani è opposto di trash.
Una volta smussate le acuzie del cattivo gusto siamo pronti a entrare in una terra dove nessuno urla, nessuno imbratta i muri, dove ogni tanto si trova il tempo per visitare Brera o Capodimonte e dove capita anche che qualcuno tiri fuori un buon libro o un vecchio disco. Lì, facilmente, si sarebbe potuto incontrare Giorgio Armani.
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