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«La valle» di Salvo (2008)

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«La valle» di Salvo (2008)

Salvo: «Cerco nella pittura soprattutto l’elemento umano»

In un’intervista del 1988 al nostro Giornale, Salvatore Mangione ripercorreva la propria carriera artistica nel panorama internazionale di quegli anni

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Franco Fanelli

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Pubblichiamo il testo di un’intervista all’artista Salvo (Salvatore Mangione) realizzata da Franco Fanelli per l’inserto «Vernissage» del numero 53 di «Il Giornale dell’Arte», del febbraio 1988

Reduce dall’antologica curata da Renato Barilli per il ciclo milanese di Besanaottanta, Salvo è ora protagonista di una retrospettiva aperta dal 30 gennaio al Museum Boymans di Rotterdam. Abbiamo sentito il poco più che quarantenne pittore siciliano, ma torinese d’adozione, in occasione di questa importante mostra olandese.

Il titolo della mostra al Boymans cita due date, 1975-1987. La scelta del periodo creativo, nel suo caso, assume un significato molto preciso, no?
A Rotterdam, in effetti, non sono esposte opere relative agli anni di adesione all’Arte Povera, gli anni Sessanta, allorché iniziai a lavorare a Torino dove questa corrente era nata e si stava sviluppando. In effetti sono in mostra esclusivamente dipinti, anche se più che al 1975, amo riportare a due anni prima l’inizio di questo ventennio di attività. Il 1973 è una data che significa qualche cosa, ma non soltanto per me: è l'anno della morte di Picasso, anzitutto, ed è in quell’anno che io dipinsi i miei primi «San Giorgio» ispirati a Raffaello, salutando così i miei compagni di strada dell’Arte Povera.

Lei è stato l’unico ad abbandonarli per una scelta apparentemente opposta. A che cosa si deve quella svolta così brusca?
Più che altro a una questione di noia, credo. In quegli anni, per essere à la page, un giovane doveva esporre in gallerie totalmente bianche, in cui comparivano installazioni ed interventi dove l’uso del colore era bandito. Invece io sentivo e sento l’esigenza di fare il pittore. Di qui il ritorno alle tecniche tradizionali. Mi si riconoscerà almeno il merito di aver intrapreso una scelta così rischiosa in anni che non perdonavano operazioni di questo tipo. D’altra parte ho sempre sospettato degli artisti che non cambiano mai.

Soltanto i posteri potranno giudicare della radicalità dei mutamenti, e penso a Renoir vecchio, a cui la critica dell’epoca imputava un eccessivo allontanamento dai suoi canoni di partenza. Oggi se osservo un dipinto del primo Renoir e uno della fase estrema, non trovo che si siano verificati, nell’arco della sua produzione, cambiamenti di rotta così importanti.

Ma se lei è come appare ora, come spiega la sua iniziale adesione al concettuale?
Credo che allora fosse mio desiderio affermarmi come artista, in primo luogo. Quando si è giovani non si dispone, nella maggioranza dei casi, di un’esperienza sufficiente per operare con uno stile personale e idee precise. Semplicemente, aderii ad una fase generazionale, che avrei poi superato con il ritorno alla pittura: nella Roma del primo Seicento, un giovane sveglio avrebbe prodotto sicuramente della pittura caravaggesca.

Troverei poco interessante fare oggi le cose che si facevano vent’anni fa; vi sono pittori, in passato, che aderirono a una moda, e perseguirono per tutta la vita le stesse tematiche, lo stesso stile. Nell’Ottocento molti dipingevano cineserie, e continuarono a farlo fino alla fine, come Pasini e molti altri, senza rendersi conto che quel momento era ormai trascorso, e che il dibattito artistico si svolgeva su altri piani, che l'interesse era mutato.

Per me, con l'arte concettuale si era giunti alla totale negazione della rappresentazione, o alla rappresentazione distorta: è una linea storica ideale che rintraccio negli Impressionisti, per farla proseguire con Picasso e Mondrian, fino agli anni Sessanta. Faccio un esempio: vidi, proprio in quel periodo, due monografie dedicate a due pittori inglesi dell’Ottocento, e in copertina l’opera di questi due artisti era rappresentata non già da un dipinto finito, ma da un bozzetto per un quadro.

Perché allora, forse, si considerava il bozzetto più importante dell’opera finita, l’idea più importante della realizzazione; lo stesso principio che informò tutta l’arte concettuale. A me invece era necessario ritornare al pennello per produrre quadri completi e colorati, prodotti finiti.

I suoi discorsi sono fitti di riferimenti ad artisti del passato, ma quali di essi hanno influenzato la sua opera?
Potrei citarle nomi che oggi dicono qualcosa soltanto a me. Perché, alle soglie del 2000, disponiamo di una tale messe d’mmagini e di documentazione iconografica che ci piove da tutte le parti, che è ben difficile rintracciare momenti e figure decisive per il nostro immaginario. Difficilmente, infatti, visito un museo: ho tutto qui in casa, nei cataloghi, nei libri. Berenson sosteneva che i quadri andassero studiati dalle fotografie, preferibilmente in bianco e nero.

Balthus, a chi gli faceva rimarcare la sua lentezza nel terminare un quadro, rispondeva candidamente: «Vede, il fatto è che io non so dipingere...». Sottoscrivo in pieno quest’affermazione, perché dalla pittura devono emergere anche le deficienze del pittore. Mi piace che dai quadri di un artista emergano i suoi difetti, le sue deformazioni, la sua patologia. Cerco nella pittura soprattutto l’elemento umano, lo stesso che vien fuori da una commedia di Plauto o Terenzio. Credo che un pittore non debba cercare di correggere i suoi difetti.

Theo van Gogh non aveva il coraggio di proporre a Goupil i dipinti del fratello, che sarebbero stati scambiati per le opere di un alienato. Ma se van Gogh avesse tentato di correggersi in qualche modo, oggi i suoi quadri non ci comunicherebbero la pur minima emozione. El Greco non avrebbe realizzato i suoi dipinti allucinati se, come sembra, non soffrisse di un disturbo alla vista. In Rembrandt mi piace confrontare i suoi dipinti giovanili con gli ultimi autoritratti, così grumosi di luce e materia, al contrario delle prime prove, realizzate a velature delicate. In quella materia io scorgo il trascorrere di un’esistenza. Questa è la pratica della pittura.

Le rovine e la luce, particolarissima, sono gli elementi caratteristici dei suoi dipinti. È una luce tipicamente mediterranea, non certo quella della città in cui vive.
Diffido degli artisti che non riflettono nelle loro opere qualcosa del loro vissuto, delle loro origini... E poi la luce è elemento cardine di tutta la pittura. Per quanto riguarda le rovine non saprei... È che io copio, copio moltissimo, e la rovina è un tema ricorrente in molta pittura del passato.

Una mostra in un museo: oggi molti giovanissimi, specialmente in America, sono oggetto di un processo rapidissimo di museificazione. Le fa piacere essere esposto ora in un museo?
Credo che la realtà americana sia tutto sommato il frutto di una mentalità provinciale: non dobbiamo assumere a paradigma gli Stati Uniti, dove il mercato esercita un ruolo assolutamente primario anche nella formazione delle raccolte museali. Recentemente un amico scrittore parlava del mito di Ercole come di un «mito della durata», che si esplica attraverso le fatiche. Certo lascia perplessi il curriculum di molti di questi giovani.

Schnabel, acclamato ovunque, dipinge in realtà da pochi anni. Sarà il tempo a dirci se questi musei hanno azzeccato le scelte, perché ciò che par bello oggi forse non lo sarà domani, la storia insegna. Siamo noi a determinare la bellezza di un’opera; la bellezza è un concetto che non esiste in assoluto. Io penso che i musei debbano occuparsi dell’arte antica, l’unica da studiare per poter migliorare come artisti.

D’altra parte, gli storici dell’arte in gioventù si occupano sì dei giovani artisti, dell’arte contemporanea ecc, ma oltre la quarantina pubblicano solo più testi sul Quattro e Cinquecento, o sull’arte bizantina. E fanno bene: lasciamo che siano le generazioni future a giudicare della bontà o meno di ciò che facciamo oggi.
 

«La valle» di Salvo (2008)

Franco Fanelli, 11 settembre 2023 | © Riproduzione riservata

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Salvo: «Cerco nella pittura soprattutto l’elemento umano» | Franco Fanelli

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