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Luana De Micco
Leggi i suoi articoliAlighiero Boetti arriva in Afghanistan nel 1971: l’artista torinese (1940-1994) è alla ricerca di «qualcosa di diverso», nel tentativo forse di prendere le distanze dall’Arte povera, il movimento teorizzato tre anni prima da Germano Celant, di cui Boetti resta una delle figure centrali. All’epoca l’Afghanistan è un Paese che si apre al mondo e Boetti si innamora dei suoi luoghi e della sua gente. Da allora il suo lavoro artistico sarà strettamente legato al popolo e alla tradizione afghana.
Una selezione di opere emblematiche di questo periodo «afghano» è allestita da Tornabuoni Art nei suoi spazi dell’avenue Matignon con la mostra «Alighiero Boetti. Pensando all’Afghanistan», dal 18 ottobre al 22 dicembre. Di questi anni sono i «Lavori Postali», dei mosaici di francobolli, e le celebri «Mappe», una serie di arazzi ricamati dalle donne afghane secondo la tecnica ancestrale locale della lavorazione dei tappeti. Sempre a Kabul, e poi a Peshawar, in Pakistan, dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979, sono realizzati i «Ricami», composti da griglie di lettere che, giocando con i colori, si combinano in parole e frasi.
È esposta anche una serie di lavori su carta realizzati più tardi nello studio romano, quando viaggiare in Afghanistan diventa impossibile, su cui Boetti incolla ritagli di giornale e fotografie, tra cui «Primo lavoro dell’anno pensando all’Afghanistan» (1990). In mostra sono presentati anche scatti e documenti d’archivio personali dell’artista. Un primo «capitolo» della mostra parigina si era tenuto tra settembre e ottobre nella galleria Tornabuoni di Milano dove era stata presentata l’esposizione «Salman Alighiero Boetti», che ha allestito la collezione privata, composta da una trentina di opere, di Salman Ali, amico fraterno e fidato collaboratore per tanti anni di Boetti.

Alighiero Boetti, «Senza Titolo (Tra l'incudine e il martello)», 1989 © Tornabuoni Art
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