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Jennifer Guidi, «The Long Burnished Sun-Glade Waters», 2024-25

Courtesy of MASSIMODECARLO

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Jennifer Guidi, «The Long Burnished Sun-Glade Waters», 2024-25

Courtesy of MASSIMODECARLO

Per Jennifer Guidi la ripetizione è devozione, il paesaggio è un viaggio

«Questo è il paradosso della mia pratica: ciò che è meccanico diventa mistico, il metodo diventa meditazione», confessa l’artista californiana. «La ripetizione del gesto e il controllo del mio processo agiscono come una sorta di architettura sacra»

Serena Macchi

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Sono piccoli tocchi concentrici quelli che si irradiano sulle tele di Jennifer Guidi (Redondo Beach, Usa, 1972). Ed è la luce della sua California, contaminata dalle visioni surreali proprie della sua pratica meditativa, quasi ossessiva, a invadere lo spazio delle tele fino a saturarne la superficie. Reduce dall’ultima mostra personale da Massimo De Carlo a Milano, la pittrice americana è da oltre una decina d’anni sulla cresta dell’onda nel panorama internazionale, prima ancora della riscoperta e rivalutazione delle artiste donne successive al #MeToo statunitense. Le sue opere sono presenti in diverse istituzioni museali e grandi collezioni come l’Hammer Museum di Los Angeles e la Rubell Collection di Miami. Nei suoi paesaggi si combinano i mantra della filosofia orientale, l’astrazione spirituale e l’eredità del Minimalismo, in un concentrato di energia centrifuga che fa perdere le coordinate spazio-temporali. La superficie delle sue opere è ruvida, accidentata. Attraverso l’applicazione di uno strato di sabbia sulle tele, i suoi dipinti diventano una trasposizione allegorica della realtà che vogliono rappresentare, una vera e propria incorporazione del reale attraverso una componente materica, texturale e gestuale. Al contempo, però, la stesura della pittura a olio è raffinata, precisa, dettagliata. Così la superficie dei dipinti sembra vibrare e far brillare i colori nel momento in cui la si osserva. Lenti e rituali nella loro esecuzione, i suoi dipinti oscillano tra l’incorporazione e la rappresentazione del reale e un tentativo di trascenderlo. Avviene così la creazione di uno scenario immaginifico, fantastico, estremamente colorato e luminoso in cui le coordinate reali si perdono. Potrebbe essere una costiera italiana oppure californiana. 

Cominciamo da dove ha appena finito di costruire la sua ultima mostra, Casa Corbellini-Wassermann a Milano (progetto del 1936 di Pietro Portaluppi, Ndr), rendendo mistico un luogo già per sua natura atemporale, irradiandolo di energia, luminosa e dinamica. Come si pone nei confronti degli spazi con cui deve relazionarsi?
Quando pianifico una mostra considero spesso l’architettura e la storia del luogo in modo da creare coesione tra lo spazio e la mia presentazione. Dello spazio Corbellini-Wassermann, originariamente una casa, ho voluto riconoscere l’aspetto domestico stendendo un tappeto in tutta la galleria. Penso che questo abbia creato un’atmosfera molto leggera, ariosa e femminile.

Ha spezzato il razionalismo dello spazio attraverso il suo congenito utilizzo di un punto focale centrale nei suoi dipinti, anziché la linea dell’orizzonte. In che modo si rapporta allo spazio e alla luce dei luoghi?
La luce del Sud della California, dove vivo, è molto particolare. Non è come in nessun altro luogo. Sono profondamente attratta dal mondo naturale e dai colori che vedo ogni giorno intorno a me. Mi interessa di più il movimento della luce, l’energia radiante che produce. Nei miei dipinti cerco di catturare la luce e i colori di un momento, quella sensazione che si prova davanti a un tramonto mozzafiato o alla brillantezza dei fiori selvatici su una collina.

Esiste una relazione tra la sequenzialità del gesto e la serialità degli scenari presentati in mostra?
Ogni dipinto e scultura ha una propria autonomia, eppure insieme danno vita a un’idea coerente. I ritmi interiori del mio segno si espandono e si sviluppano in queste intersezioni tra processo meditativo e presenza materica. C’è una componente spirituale nella mia pratica: la ripetizione del gesto è una forma di radicamento o di devozione, mentre il paesaggio si trasforma in un viaggio, un pellegrinaggio. La maggior parte dei paesaggi che raffiguro non rappresenta luoghi reali, ma è una combinazione di posti che ho visitato, immagini che ho visto e idee nate dalla mia immaginazione. Sono un po’ punti di riferimento, un po’ punti di smarrimento.

Come entra nel paesaggio e come riesce a rivelarlo? 
Un paesaggio è un’interpretazione personale dello scenario naturale. È un’idea molto ampia, ed è proprio questo che mi piace: offre molta libertà. Più che rappresentare l’aspetto della natura, cerco di trasmetterne la sensazione, soprattutto le sue energie e vibrazioni. Il mio intento è ricomporne l’essenza in una nuova forma astratta, pur continuando a prendere spunto dall’idea tradizionale della pittura di paesaggio. Rispetto alla «pittura di paesaggio» della tradizione occidentale e orientale, più che rappresentare paesaggi in maniera precisa, cerco di attingere a una dimensione metafisica e simbolica. Il mio uso del paesaggio diventa qualcosa di sperimentale più che di «rappresentativo».

Preferisce le vette della montagna o gli orizzonti del mare?
Dipende principalmente da ciò che mi ispira nel preciso momento in cui inizio a dipingere.

Jennifer Guidi nel suo studio

Come sceglie i titoli delle sue tele?
Ci vuole un’infinità di tempo! A volte i titoli vengono dai libri che sto leggendo o dalle parole che risuonano in me. Altre volte, arrivano durante le sessioni di meditazione. Raramente scelgo titoli prima che un lavoro sia completamente finito. Devo guardarlo, sedermi e sentirlo.

Gestualità, ritualità, meditazione, metodicità: come si combinano tra di loro queste peculiarità della sua pratica? In che modo il controllo meccanico e ripetitivo di un gesto può diventare una forma di elevazione spirituale e di trascendenza del reale?
Questo è il paradosso della mia pratica. Quello che è meccanico diventa mistico, il metodo diventa meditazione. La ripetizione del gesto e il controllo del mio processo agiscono come una sorta di architettura sacra. Il processo rituale della mia pratica, nella quale la ripetizione non è una tecnica ma ha un significato, permette a ogni dipinto di diventare un piccolo personale viaggio. Forse non è un caso che spesso ascolti musica mentre dipingo. Principalmente hip-hop, musica con un ritmo costante che mi aiuta davvero a restare nel flusso del lavoro...

In che modo la funzione espressiva della materia assume una centralità nella sua opera?
I miei dipinti sono creati usando strati di sabbia e di pigmento, così la materialità non è nascosta, ma messa in evidenza, conferendo ai dipinti una presenza scultorea. Penso che la superficie e la materia possano invitare una connessione che va oltre il linguaggio o l’immagine, questo è ciò che conta: connettersi con le persone attraverso energia ed emozione.

In che modo nelle sue opere la serialità e la ripetitività, eredità della scultura minimalista, incontrano la ritualità delle teorie legate all’energia e alla percezione?
Il segno è meditativo, intenzionale, e questa ripetizione non riguarda la precisione meccanica, ma il diventare sintonizzati su qualcosa di più profondo. I dipinti funzionano come mantra visivi o campi di frequenza, mantenendo sia l’immobilità che il movimento. Sono interessata all’idea che la percezione stessa possa essere un’esperienza spirituale. Attraverso un’attenzione concentrata, lo spettatore può entrare in uno stato di contemplazione, anche di trascendenza. L’opera può iniziare con qualcosa di radicato, ma spinge sempre verso qualcosa di più aperto, più cosmico. Voglio che si percepisca come un’espansione, come se si potesse essere ovunque.

Quale ruolo assume nella sua pratica il misticismo orientale?
Direi che gioca un ruolo fondamentale ma sottile, influenzando sia la mia estetica che il mio metodo. Medito anche ogni giorno e mi pongo un’intenzione. Questo inevitabilmente si riflette nella mia pratica artistica. I movimenti ripetitivi nel posizionare punti sulle montagne o mandala nei cieli sono una meditazione a sé stante.

Il prossimo viaggio? Il prossimo paesaggio?
Ho sempre voluto andare in Egitto. Sono affascinata dalla giustapposizione tra il mondo antico e quello contemporaneo.

Serena Macchi, 08 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

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