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Serena Macchi
Leggi i suoi articoliIl MASI di Lugano ha annunciato appena un mese fa la nomina della nuova direttrice: Letizia Ragaglia, attualmente direttrice del Kunstmuseum Liechtenstein di Vaduz. La curatrice di Montebelluna assumerà ufficialmente la direzione della preziosa istituzione ticinese a partire dalla prossima primavera. Il Giornale dell'arte l'ha incontrata a Milano.
Parliamo del suo nuovo incarico al MASI. Quali sfide pensa di dover affrontare e quali aspetti del suo percorso personale e professionale pensa possano portare qualcosa di nuovo al museo?
Il MASI è un museo relativamente giovane, ma con una storia importante. Ha una collezione che spazia tra le epoche e con la quale mi interessa molto lavorare. Nel mio percorso ho prevalentemente lavorato in maniera tematica con i patrimoni artistici che avevo “a disposizione” cercando di rivitalizzarli attraverso diversi dialoghi: dialoghi tra collezioni, dialoghi con artisti. Vorrei portare questa esperienza anche al MASI.
Quali sono le potenzialità di questa collezione?
La potenzialità della collezione consiste innanzitutto nel fatto che non è una collezione “mainstream”: ci sono degli artisti che si possono approfondire solo a Lugano. Tobia Bezzola ha già lavorato su questa specificità e mi vorrei agganciare al lavoro svolto cercando di porlo in relazione con un contesto culturale più ampio, ovvero cercando di creare, per esempio, delle relazioni anche con la musica e con la letteratura. Mi rendo conto che è un percorso che si costruisce gradualmente e che necessita di tante ricerche, ma vorrei offrire ai visitatori del territorio così come a chi si avvicina da fuori un approfondimento interdisciplinare della collezione.
Che ruolo pensa debba avere un museo nel nostro contemporaneo?
Recentemente ho letto un articolo molto interessante su Artforum, che mi trova assolutamente d’accordo: il direttore del Carnegie Museum for Art di Pittsburgh ha proposto di iniziare a pensare i musei come “neighborhood museums”, ovvero come dei musei del vicinato che sono o devono diventare una risorsa vitale per gli individui e la comunità. Anch’io credo nell’importanza di un museo “ conviviale” ed aperto, dove il pubblico si senta accolto e pertanto ho dedicato e intendo dedicare molta attenzione allo sviluppo di diversi formati per attirare nuovi pubblici.
In che modo, nella sua opinione, un’istituzione culturale deve creare engagement con la comunità?
Diventando un punto di incontro, un luogo di contaminazione positiva tra le opere e le persone, ma anche tra le persone stesse. Il museo deve creare delle opportunità di aggregazione e scambio offrendo format diversi per pubblici diversi. In Liechtenstein, per esempio, grazie al supporto di una fondazione privata abbiamo dato vita a un progetto per bambini piccolissimi dai 0 ai 4 anni. Grazie a una grande scultura calpestabile e “vivibile” di Dan Peterman siamo diventati, tra l’altro, un punto di incontro per giovani mamme e giovanissimi visitatori.
Diamond Stingily, Mercedes Azpilicueta, Invernomuto, Nazgol Ansarinia, Liliana Moro, Bethan Huws e Georgia Sagri, Candida Höfer, Ana Lupas. Queste sono alcune delle mostre che haicurato al Kunstmuseum del Liechtenstein. Diverse geografie e diverse generazioni. Tuttavia quello che emerge a un primo sguardo è sicuramente un forte interesse per le pratiche artistiche femminili. In che misura il sistema dell’arte, pur adottando una retorica transculturale e femminista, rischia ancora oggi di riprodurre dinamiche di esclusione in relazione al genere e alla nazionalità?
L’inclusione e l’attenzione alle pratiche femminili fa parte del mio percorso e non intendo abbassare la guardia. I musei in questo momento hanno una grande responsabilità: penso che siamo tutti/e ormai consapevoli che per secoli è stata scritta una storia dell’arte prevalentemente occidentale e maschile e cerchiamo di narrare storie diverse, aprire nuove prospettive. Ma bisogna anche sempre considerare il contesto in cui si opera e adattarsi a quest’ultimo: vedere cosa è possibile e sensato fare senza calare dall’alto delle forzature.
In questo contesto, quali pratiche di artiste e artisti diventa rilevante valorizzare?
Personalmente ho sempre imparato tanto dagli artisti e dalle artiste con cui ho lavorato, mi hanno aperto prospettive non scontate e soprattutto mi hanno abituato all’attenzione per le sfumature, per i dettagli, per gli interstizi. Credo che sia importante abituare un pubblico al fatto che l’arte non va “capita”, ma intuita, esperita, vissuta, che ci possono essere anche dei momenti di frizione e di disagio così come dei momenti di grande gioia. Già il fatto di “sintonizzarsi” sulla posizione di un’artista che non ci risulta familiare è un momento di apertura. La scelta degli artisti/delle artiste è sempre soggettiva: chi sta a capo di un’istituzione compie delle scelte in buona fede pensando ai suoi pubblici. Personalmente scelgo delle posizioni che penso possano contribuire a dare un arricchimento su tematiche socialmente rilevanti o che possano indurci a rivedere degli schemi di pensiero inveterati.
Nel suo lavoro da curatrice ha riportato l’attenzione su forme d’arte che non necessariamente prendono una conformazione materiale. Che ruolo e che importanza assume, nella sua opinione, la pratica performativa nel contesto museale?
Vedo la pratica performativa come un amplificatore delle attività del museo. Non intendo le performance come avulse dalle attività del museo, ma, anzi, integrate e in sintonia con esse. Possono offrire nuovi approcci ed anche attirare nuovi pubblici.
Quali sono i progetti che vorrebbe mettere in pratica nel "suo" nuovo museo?
Mi piacerebbe molto cercare di lavorare in rete con altre realtà del territorio, in particolare con il LAC. E vorrei rendere il MASI sempre più un importante motore e punto di riferimento culturale per la regione, ben oltre i suoi confini.
Quale potrebbe essere un modello museale di riferimento?
Tutti i musei che cercano di costruire un percorso delle collezioni riaprendo i propri depositi per narrare storie nuove e inedite. In questo per me il processo messo in cantiere dal MoMA di New York da diversi anni rimane un vero faro. Chiaramente parlo solo dell’approccio, ma trovo molto stimolante e significativo che nel percorso espositivo siano stati inseriti riferimenti al cinema, all’architettura e che sia stato dato spazio a pratiche femminili così come a pratiche in precedenza marginalizzate.
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