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Jenny Dogliani
Leggi i suoi articoliLa collaborazione tra Nike e Air Afrique ha preso forma questo autunno nella Air Max RK61, ma il prodotto è solo il punto di condensazione di un progetto più ampio, che lavora sul terreno della memoria visiva, dell’immaginario collettivo e della costruzione simbolica del movimento. Air Afrique non è un marchio di moda in senso tradizionale, ma un collettivo creativo con base a Parigi, attivo in editoria, direzione artistica e produzione di immagini, che da anni indaga le estetiche afro-diasporiche come spazio culturale transnazionale. La scelta di Nike di collaborare con Air Afrique non risponde a una logica di stile, ma a una logica di narrazione: la sneaker diventa supporto, superficie, dispositivo. Il riferimento storico è la compagnia aerea pan-africana Air Afrique, fondata nel 1961 e operativa fino ai primi anni Duemila: un’infrastruttura reale che, per una generazione, ha incarnato l’idea di connessione tra Paesi africani, Europa e diaspora, prima ancora che il concetto diventasse un tema teorico. Nike e Air Afrique non citano questo passato in modo nostalgico, ma lo traducono in grammatica visiva, facendo lavorare il design come archivio.
© Nike x Air Afrique
La Air Max RK61 incorpora questa stratificazione a più livelli. L’unità Air visibile, da sempre segno tecnico e iconico del marchio, viene riletta come motore, propulsione, spinta: un’allusione diretta all’aviazione, ma anche alla mobilità come condizione culturale. I materiali tessili richiamano le texture degli interni degli aerei storici; i codici grafici – dal logo reinterpretato ai dettagli in codice Morse incisi sulla suola – funzionano come micro-testi, segni da decifrare più che decorazioni. La sneaker non racconta una storia in modo lineare: accumula indizi, come fa un’opera costruita per stratificazione. Questa stessa logica governa la campagna visiva, centrale quanto il prodotto. Nike affida la narrazione non a testimonial generici, ma a figure che incarnano tempi, linguaggi e registri diversi: Didier Drogba, icona sportiva e corpo simbolico del calcio globale; Oumou Sangaré, la cui presenza introduce una dimensione musicale e politica; Marie-Josée Ta Lou-Smith, atleta ma anche figura di visibilità culturale; e una ex dipendente della compagnia Air Afrique, presenza silenziosa ma decisiva, che riporta il progetto a una dimensione vissuta. Non c’è gerarchia tra i volti: la campagna funziona come costellazione, non come line-up. Dal punto di vista fotografico, le immagini rifiutano l’estetica patinata del product shot. La composizione privilegia ambienti reali, posture non performative, tempi dilatati, costruendo un immaginario più vicino alla fotografia documentaria che alla pubblicità. La sneaker non è mai isolata: è sempre in relazione con un corpo, uno spazio, una storia. In questo senso, il progetto lavora consapevolmente contro la logica dell’oggetto-feticcio, per trasformarlo in elemento di una narrazione visiva più ampia.
© Nike x Air Afrique
Air Afrique, come collettivo, opera esattamente su questo crinale. La loro pratica nasce dall’editoria indipendente e dalla direzione artistica: magazine, immagini, testi che mettono in relazione arte, moda, sport, politica culturale e archivi. Nike intercetta questa metodologia e la innesta nel proprio ecosistema, lasciando che la forma-campagna assorba il ritmo e il linguaggio del collettivo, invece di neutralizzarlo. È qui che il progetto supera la dimensione della collaborazione commerciale e si colloca in un territorio più vicino alle arti visive applicate, dove il design è un mezzo e non un fine. La Air Max RK61 funziona così come oggetto-soglia: tra passato e presente, tra prodotto e immagine, tra sport e cultura visiva. Non pretende di rappresentare l’Africa o la diaspora – operazione sempre problematica – ma lavora su frammenti, simboli, presenze, lasciando che siano le immagini a costruire senso. È un progetto che non chiede di essere spiegato, ma osservato, letto, attraversato. In questo senso, Nike × Air Afrique non aggiunge semplicemente un capitolo alla lunga storia delle collaborazioni del brand, ma mostra come un marchio sportivo possa operare sul terreno dell’immaginario con strumenti che appartengono più alla pratica artistica che al marketing: montaggio, citazione, stratificazione, ritmo visivo. La sneaker resta, ma ciò che rimane davvero è la costruzione di un linguaggio. Questo slittamento di senso diventa particolarmente leggibile se si guarda alla traiettoria che le sneaker iconiche hanno assunto negli ultimi anni anche sul piano del mercato collezionistico. Le aste internazionali hanno sancito la trasformazione delle scarpe sportive in veri e propri oggetti-documento: una coppia di Air Jordan XIII indossate da Michael Jordan durante le NBA Finals del 1998 è stata venduta nel 2023 per 2,238 milioni di dollari, stabilendo un record per sneaker da gioco; le Air Jordan XII Flu Game hanno superato 1,38 milioni di dollari; mentre le Nike Air Yeezy I, indossate da Kanye West ai Grammy del 2008, hanno raggiunto 1,8 milioni di dollari in una vendita privata. Questi risultati non dipendono solo dalla rarità fisica degli oggetti, ma dalla loro capacità di incarnare storie, identità e immaginari condivisi. In questo orizzonte, la Air Max RK61 non parla solo al presente: si colloca già in una linea di continuità in cui lo sportswear smette di essere puro consumo e diventa archivio culturale del nostro tempo, pronto a essere riletto, collezionato, storicizzato.
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