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Matteo Cocci
Leggi i suoi articoliIn un momento storico in cui ogni valore sembra essere tramontato, un film dal titolo L’isola degli idealisti, l’ultima sfida cinematografica di Elisabetta Sgarbi – regista, editrice e fondatrice de La Milanesiana, la cui 26esima edizione si conclude il 28 luglio – può sembrare anacronistico. Dietro di esso si nasconde invece un’opera stratificata e fitta di misteri, in cui un luogo apparentemente appartato e pacifico, come una piccola isola dell’Adriatico, si trasforma in una prigione per donne e uomini paralizzati dalle proprie fobie. Ad abbellire, anche se solo momentaneamente, le contraddittorie e spente esistenze dei protagonisti, intervengono preziose opere d’arte (originali) di Adolfo Wildt e Cagnaccio di San Pietro, punte di diamante del raffinatissimo apparato decorativo orchestrato da Sgarbi.
Abbiamo rivolto alla regista qualche domanda sul film, sulle sue ispirazioni e sul suo indissolubile legame con il mondo dell’arte.
La scelta di mantenere la narrazione del suo ultimo film su un’isola appartata riveste un significato particolare? Forse essa simboleggia una roccaforte di valori sulla via del tramonto nella società contemporanea?
L’isola è un rifugio e una gabbia. Chi vi approda pensa di essere al riparo dalla vita, ma in realtà è prigioniero delle sue paure. Lo sono i Reffi, ciascuno con propri traumi e fantasie. E lo sono i due ladri che vengono arrestati, prima che dalla polizia, dalla Villa stessa e dai suoi labirinti.
La condizione socio-culturale di Celestino e della sua famiglia impone regole e comportamenti precisi: la loro costante violazione può essere considerata uno dei cardini della vicenda?
I Reffi, da idealisti, si danno un “metodo” di vita. Pensano che la vita si possa ingabbiare in regole, e così schivare gli imprevisti. A tal punto che quando i due ladri entrano nella Villa, cercando rifugio da non si sa bene cosa, Celestino pensa addirittura di sottoporli alle sue regole, di educarli. Ma Celestino non è stupido, e nel film verrà educato lui, piuttosto che i due ladri. Ma non è uno scontro di classe: è una tensione ideale e reale, quella dei Reffi, e di Celestino in particolare. Quando Beatrice gli chiede “Perché fa questo per me?”, lui, convinto, risponde: “Perché lei non è una ladra, lei ruba”. Ma la verità gliela sbatte in faccia Beatrice: “Io sono una ladra e lei è un illuso”.

Tommaso Ragno e Renato Carpentieri in una scena de «L'Isola degli idealisti». @Simona Chioccia
Ritiene corretto definire la sua opera un dramma psicologico ambientato nella provincia italiana, ma rappresentativo di tutto il Paese?
Lo definirei un noir psicologico e sentimentale. La Provincia è una presenza importante, nel senso che la storia nasce a partire da un’isola appartata in cui fanno irruzione i due ladri. Ma il tema, più che la provincia, è la sospensione nello spazio e nel tempo che l’Isola comporta.
Quali le vicinanze e quali le diversità rispetto ad altre sue precedenti produzioni, spesso legate all’area del Delta, anche se impostate secondo chiavi di lettura differenti?
Questo è un film di finzione, con una produzione importante, come BibiFilm, con Rai Cinema e la Film Commission, e un distributore come Fandango. Un meccanismo molto più complesso. Dei documentari ero io stessa la produttrice. Quindi siamo in un mondo diverso, anche se lo sguardo rimane il mio.
Il casting degli attori rappresenta uno dei nodi principali del suo modo di affrontare la realizzazione di un’opera cinematografica. Quale il rapporto che lei desidera instaurare con loro?
Di scambio assoluto. Con molti di loro avevo già lavorato, sono amici e amiche. Ho avuto rapporti editoriali, oltre che cinematografici. Con i nuovi attori abbiamo instaurato un rapporto di fiducia estrema, e, nella condivisione del progetto, sono stati liberi di fare gli attori, nel senso che ho accolto molte delle loro proposte.
Ha già in mente gli interpreti di cui si vorrebbe servire quando, insieme a Eugenio Lio, si appresta a scrivere le sue sceneggiature?
La sceneggiatura, al momento della stesura, aveva già i volti degli attori che poi avrei coinvolto. Beatrice è sempre stata Elena Radonicich per esempio.

Dal film «L'Isola degli idealisti». Ritratto di Carla Reffi, disegno di Giovanni Iudice
Magia, piccoli e grandi misteri e, soprattutto, tanta arte aleggiano per le stanze della villa. Quanto la sua vicinanza al mondo dell’arte influisce sulle scelte di arredi, opere pittoriche e scultoree, oggetti preziosi?
L’arte è dentro di me, è anzitutto una educazione al vedere. Molte delle opere che appaiono nel film sono state prestate dalla Fondazione Cavallini Sgarbi, da Antiquari, da amici artisti. E poi ci sono quelle realizzate da Giovanni Iudice: da un lato i disegni che nel film sono attribuiti a Guido, dall’altro il ritratto di Carla Reffi (Michela Cescon). L’arte ha qui un ruolo “visivo”, di ispessimento della inquadratura. Ma ha anche un ruolo narrativo: l’arte “classica” è dei Reffi, mentre Guido fa schizzi, catturando la realtà con la velocità del disegno. È uno scontro di mondi.
Rimanendo sull’arte, quest’ultima ha sempre rivestito un ruolo di primaria importanza nella sua attività sia di organizzatrice culturale che di regista. Per quanto riguarda i film di finzione, ritiene che l’arte svolga un ruolo da “comparsa” o invece che sia centrale al pari dei protagonisti della vicenda?
Come dicevo, qui l’arte ha un ruolo ed è narrativo. Guido seduce Carla col disegno. In qualche modo questa dinamica era presente anche nel romanzo di Scerbanenco a cui il film si ispira. Qui, però, è molto più accentuata. Beatrice è colpita dalla intensità della Vergine di Wildt: per lei è la possibilità di un mondo diverso.
L’opera di Scerbanenco è in corso di pubblicazione presso La Nave di Teseo. Lo scrittore di origine ucraina è stato uno dei maggiori cantori di Milano, dalla fine della guerra fino alla fine degli anni ’60. Crede che il capoluogo lombardo, per come è stato dipinto da Scerbanenco, sia del tutto scomparso?
È certamente molto cambiato. Ma Scerbanenco ha avuto il merito di raccontare in anticipo i cambiamenti. Li sentiva arrivare. E poi ha avuto una straordinaria capacità di raccontare l’universo femminile, molto in anticipo sui tempi. Era suscettibile a quello che accadeva. Mi sembra che oggi abbiamo perduto questa sensibilità.
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