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Creare nuovi immaginari a Venezia. Yuri Ancarani ci racconta sua Atlantide

The Dark Side of the Sea. Atlantide di Yuri Ancarani racconta una Venezia mai vista prima con una colonna sonora d’eccezione, oggi disponibile in streaming

Matteo Cocci

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Nel panorama artistico e cinematografico quella di Yuri Ancarani è una figura anomala, in grado di spaziare tra generi completamente diversi senza per questo snaturarsi. Altrettanto unico e estraneo a qualsiasi convenzione è il suo ultimo progetto filmico, Atlantide (2021), con cui ha raccontato una Venezia che nessuno fra chi visita la laguna per piacere o lavoro aveva mai intercettato, se non cogliendola distrattamente, a notte fonda, tra i canali deserti: quella dei barchini – mezzi che per la gioventù locale rappresentano una vera ragione di esistere – e di tutto l’universo magico, quasi misterico, che circonda queste scattanti imbarcazioni. Per farlo Ancarani si è affidato a immagini raffinatissime ma anche a una colonna sonora che accompagna e a tratti sovrasta la narrazione stessa. Autore di gran parte della musica del film –insieme a Lorenzo Senni e Francesco Fantini, che hanno composto le arie orchestrali che enfatizzano l’onirico finale del film – è Sick Luke, enfant prodige della scena trap italiana, divenuto celebre come produttore della Dark Polo Gang, invitato da Ancarani a salire a bordo – e, per certi versi, a prendere il timone – di un’operazione artistica di fronte a cui è difficile trovarsi preparati. Oggi, la colonna sonora di Atlantide è finalmente disponibile sulle piattaforme streaming. Per celebrare l’occasione si è svolta una proiezione al cinema Beltrade di Milano, che nonostante i quattro anni passati dall’uscita del film ha visto la sala riempirsi di spettatori. Abbiamo rivolto qualche domanda al regista.

Negli anni hai sperimentato diversi approcci artistici, dalla videoarte fino a produzioni prettamente cinematografiche. La costante sembra essere il tuo interesse per l’immagine in movimento: quale è stata la scintilla che ti ha fatto avvicinare a questa forma espressiva?

Il video è il medium più giovane. È economico, accessibile, e la telecamera ti permette di creare immagini potenti in modo veloce e autonomo. È il mezzo di espressione oggi più rappresentativo nella cultura contemporanea. È un linguaggio che o conosci o subisci. La sua forza comunicativa è enorme, ma raramente viene davvero utilizzata per fare arte.

I tuoi film spiccano per una fotografia complessa, dominata da una maniacale cura della composizione. Hai dei riferimenti artistici particolari quando lavori all’immaginario visivo dei tuoi film?

Non è il cinema il mio punto di riferimento principale, ma la fotografia italiana, sia per la composizione che per il montaggio. Il modo in cui si costruisce una mostra fotografica, con una logica precisa nell’accostamento delle immagini, è molto simile al metodo di montaggio che uso nei miei film. Anche nella scelta della luce, evito le ricette classiche — come l’alba o il tramonto, considerate ideali — e preferisco la luce zenitale, quella che ritroviamo in Piero della Francesca: una luce piena, che si impossessa di tutto e annulla le ombre.

Diversi tuoi lavori sono privi sia di musiche che di dialoghi. Come sei arrivato a realizzare un film come Atlantide, in cui la musica è presente per due terzi della sua durata? 

Oltre ai riferimenti visivi di cui ti ho parlato, mi interessa molto esplorare i generi del video, più che quelli del cinema. Uno su tutti è il videoclip musicale. In Atlantide i protagonisti sono gli adolescenti e la musica parla più di una sceneggiatura, soprattutto se ascolti i testi dei brani.

In Atlantide, in particolare nella colonna sonora, hai fatto convivere elementi diametralmente opposti, accostando musica elettronica e trap a brani orchestrali. Ritieni che il mondo dell’arte, nonostante alcuni tentativi di ibridazione, sia ancora troppo rigido e restio a mescolare pratiche creative diverse tra loro?

Questo è uno dei miei interessi principali: scavalcare i confini. L’immagine in movimento mi consente di attraversare i muri, perché è un’immagine effimera, capace di circolare liberamente in spazi diversi: musei, sale cinematografiche, gallerie, piattaforme online, telefoni, o anche in televisione (meglio se di notte). È un modo di pensare, prima ancora che di fare. Per questo mi viene naturale coinvolgere generazioni diverse nei miei progetti e metterle in dialogo. Sul piano sonoro, nel caso di Atlantide, ho cercato come sempre di sperimentare, accostando generi apparentemente inconciliabili, come la trap e la musica orchestrale, la sinfonia hollywoodiana e la techno di Detroit.

Daniele, il protagonista di Atlantide, è un emarginato, una figura solitaria che si staglia nella luce riflessa dalle acque della laguna. Si può considerare la luce come un vero e proprio “personaggio” che abita tutti i tuoi film, al pari delle figure umane?

Per me la luce, in Atlantide, rappresenta il divino. Quando metti tanta energia in un progetto collettivo e lavori in uno stato di ispirazione, si possono dire e fare cose molto strane, direi magiche. Ogni volta che un riflesso entrava in camera, o la luce colpiva l’obiettivo, quello che nel cinema tradizionale verrebbe considerato un errore, per me era il segnale che la posizione della cinepresa era giusta. In quel momento, la luce diventava davvero un personaggio, un’entità viva che dialogava con la scena.

Hai detto spesso che per te è importante dare vita a opere che durino nel tempo. In Atlantide, il tempo è il nemico da battere, in quanto i ragazzi che sfrecciano per la laguna alla guida dei loro barchini misurano il proprio valore in base alla velocità che riescono a raggiungere. Quanto è importante per te la riflessione sulla dimensione temporale?

Penso che tutti gli artisti siano consapevoli che il tempo, così come lo intendiamo, esista solo nella nostra dimensione terrena. Oltre questa, probabilmente, non ha lo stesso significato o peso. Per questo molti artisti riflettono su di esso, cercando di superarne i limiti. Come nel finale di Atlantide, dove la città non sprofonda, ma diventa immateriale.

I tuoi corti hanno spesso ritratto uomini al lavoro. Con i tuoi lungometraggi ti sei invece concentrato su gruppi di persone che cercano di realizzare sé stessi attraverso strade che non contemplano la fatica: da un lato i costosissimi passatempi con cui si intrattengono gli sceicchi qatarioti, dall’altro la sfrenata passione dei giovani veneziani per i barchini. Con Atlantide hai voluto raccontare, oltre che un lato del tutto ignoto di Venezia a chi non vive la laguna quotidianamente, una generazione priva di punti di riferimento, relegata ai margini della società?

In Atlantide c’è l’impegno di dimostrare che anche in un luogo iconico e apparentemente già raccontato in ogni modo, come Venezia, si possono ancora creare nuovi immaginari. Questo per me è fondamentale, perché l’Italia è sempre stata un laboratorio sperimentale vivo e dobbiamo continuare a trattarla come tale.

Matteo Cocci, 12 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

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