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Matteo Cocci
Leggi i suoi articoliErano i primi anni ’90 quando Jafar Panahi, lasciando un messaggio di stima sulla segreteria telefonica del regista, poeta, fotografo e pittore iraniano Abbas Kiarostami, lo convinse ad assumerlo come assistente per il suo nuovo film, «Sotto gli ulivi», che sarebbe stato presentato in concorso al Festival di Cannes nel maggio del 1994. Solamente un anno dopo, nel 1995, Panahi si affacciava in prima persona sulla Croisette con il suo lungometraggio d’esordio, «Il palloncino bianco» – sceneggiato dello stesso Kiarostami –, vincendo la Caméra d'or per la miglior opera prima. A distanza di 30 anni, domenica scorsa è stato nuovamente incoronato a Cannes, questa volta con il massimo riconoscimento, la Palma d’Oro, per «It Was Just an Accident» (2025), il suo ultimo lavoro.
Durante questo lasso di tempo, Panahi è andato incontro a innumerevoli successi e altrettante sventure. Da un lato, trionfando anche in altri festival cinematografici di primissimo piano come Locarno e Venezia, dove avrebbe vinto rispettivamente il Pardo d’oro nel 1997 con «Lo specchio» – spaccato della società iraniana dove realtà e finzione si mescolano facendo emergere in modo quanto più autentico possibile la vita che si dipana tra le strade di una città – e il Leone d’oro nel 2000 con «Il cerchio» – in cui si incrociano le vite di donne con storie diverse, ma dai destini comuni. Dall’altro, entrando in conflitto con il governo iraniano: la censura, dall’uscita di questa pellicola, avrebbe colpito tutti i suoi film, rei di aver messo in luce i risvolti più oscuri della società iraniana, mentre la sua libertà sarebbe stata limitata con l’arresto nel 2010 e il conseguente divieto di girare nuovi film.
Tornato in libertà, Panahi sarebbe miracolosamente riuscito a proseguire nella sua attività di narratore per immagini: risale al 2015 «Taxi Teheran», girato interamente all’interno di un’automobile guidata dallo stesso regista che della pellicola è anche interprete – insieme a un gruppo di amici e attori non professionisti –, oltre che direttore della fotografia, sceneggiatore, montatore e produttore. Questo film è una sorta di falso documentario che, nutrendosi del veto a girare nuovo materiale audiovisivo, induce il regista a effettuare tutte le riprese dentro una vettura, al riparo da sguardi inquisitori, trasformando in valore aggiunto i limiti imposti dal regime. L’opera vince al Festival di Berlino l’Orso d’oro, ma il premio viene ritirato dalla nipote del regista, il quale non può lasciare il Paese natale per recarsi in Germania. Oggi, dopo un nuovo periodo passato in carcere, Panahi festeggia la libertà e la Palma d’Oro, ricordando i molti connazionali ancora condannati all’impossibilità di esprimersi liberamente. Il suo sguardo, da sempre interessato ai piccoli fatti del quotidiano, nella ferrea convinzione che questi possano raccontare una storia molto più grande, se non universale, dimostra quanto le idee, a volte, siano più forti di qualsiasi azione che tenti di contrastarle. A costo di votare la propria esistenza all’arte, servendosi di qualsiasi mezzo a sua disposizione pur di continuare a portare sullo schermo la propria visione del mondo – e, in particolare, dell’Iran – Panahi si ritrova a essere l’unico regista vivente ad aver vinto tutti i maggiori riconoscimenti cinematografici in Europa (oltre a lui, raggiunse questo primato solamente Michelangelo Antonioni).
Così come la bambina protagonista de «Il palloncino bianco» che, con instancabile determinazione, non accetta di aver smarrito la banconota con cui doveva acquistare un pesce rosso all’alba del capodanno islamico, permettendoci così di vedere sfilare, di fronte alla cinepresa, un piccolo campione di umanità che cerca di aiutarla o quantomeno di distrarla dalla sua disavventura, così Panahi continua testardamente a portare avanti, nonostante tutte le difficoltà, il proprio messaggio: che il cinema è vita, e viceversa.
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