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Manufatti in mostra nelle riconfigurate gallerie delle Antiche Americhe nella Rockefeller Wing del Metropolitan Museum of Art di New York

Foto Paula Lobo

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Manufatti in mostra nelle riconfigurate gallerie delle Antiche Americhe nella Rockefeller Wing del Metropolitan Museum of Art di New York

Foto Paula Lobo

La filosofia del «Pad Thai culturale» dietro la nuova Rockefeller Wing del Met

Kulapat Yantrasast, progettista dell’ampliamento dell’ala del museo newyorkese dedicata alle arti dell’Africa, dell’Oceania e delle antiche Americhe che si svelerà il 31 maggio, ama mescolare molteplici prospettive combinate in qualcosa di unico e accessibile

Linda Yablonsky

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Kulapat Yantrasast sta, letteralmente, facendo molta strada. Pur considerando la California la sua casa, l’architetto nato a Bangkok ha ricevuto commissioni da così tanti musei in così tante parti del mondo che il suo tavolo da disegno principale è diventato il tavolino di un aereo. Di recente ha fatto tappa a New York, passando da Riad e Parigi, prima di trasferirsi a Tokyo, Manila e nella sua città natale per seguire lo stato di avanzamento di progetti che includono il Musée du Louvre e il Metropolitan Museum of Art. A 57 anni, Yantrasast sta scalando rapidamente le vette della sua professione.

 Da gennaio ha trascorso un totale di cinque giorni a Los Angeles, sua base operativa dal 2003, anno in cui ha fondato Why Architecture con un unico cliente: il Grand Rapids Art Museum nel Michigan, dove l’edificio sostenibile da lui progettato con un budget di 70 milioni di dollari ha rivitalizzato un centro cittadino in declino. Ora Yantrasast ha completamente ristrutturato la  Michael C. Rockefeller Wing del Met, l’ala dedicata alle arti dell'Africa, dell'Oceania e delle antiche Americhe. La riapertura al pubblico è prevista per il 31 maggio, dopo quattro anni di lavori. Il costo totale, anche qui, è 70 milioni di dollari.

 

Come ha potuto l’architetto progettare un piccolo museo e rinnovare completamente una vasta sala espositiva di 40mila metri quadrati in quello che è senza dubbio il museo più enciclopedico del mondo con lo stesso budget vent’anni dopo? Ancorando il suo pensiero alla cucina thailandese, in particolare al Pad Thai, in cui molti ingredienti si combinano per produrre un'esperienza culinaria unica.

 

«La cultura è sempre vista come qualcosa di esclusivo, come il sushi, dichiara Yantrasast a “The Art Newspaper”. Una voce, molto esclusiva, molto distinta, molto elitaria. Io sostengo il Pad Thai culturale, perché ritengo che il tempo in cui la cultura è definita da una sola persona sia ormai superato. Un museo è un luogo di empatia, un luogo dove si va per comprendere l’arte di altre persone. Al Met ci sono turisti cinesi che vedono l’arte africana per la prima volta in un museo americano. Si tratta di un'opportunità di incontro globale».

 

 

Kulapat Yantrasast ha lavorato a progetti museali in tutto il mondo: «Costruisco per il luogo in cui mi trovo, dice. Mi chiedo perché le persone visitano un museo, come questo possa influire non solo sull’apprezzamento culturale locale, ma anche sulla sua produzione». Foto courtesy del Met

Mettere le culture nel loro contesto

La convinzione di Yantrasast lo ha reso il candidato ideale per dare chiarezza e senso alla vasta Rockefeller Wing, dove tre collezioni separate per un totale di quasi 2mila oggetti rappresentano tre quarti delle culture del mondo provenienti da cinque continenti. «Parte dell’esistenza di questa istituzione è mostrare le culture del mondo in un unico luogo, per contestualizzarle, sottolinea Max Hollein, direttore del Met. Il lavoro di Kulapat è proprio questo. È anche una questione di comunità».

Secondo Alisa LaGamma, curatrice capo dell’ala Rockefeller (e curatrice capo del Met per l’arte africana), la sala «implorava amore» già dal 1982, quando è stata aggiunta al confine meridionale del Met per rispecchiare la grandiosità del Tempio di Dendur all'estremità settentrionale. Lo spazio però era stato progettato senza tenere conto dei fragili oggetti esposti: oggetti realizzati in legno, osso, paglia, pelli di animali, piume e tessuti, molto sensibili alla luce. Tutti erano esposti al pericolo da una parete di vetro lunga 60 metri e alta due piani che dava su Central Park. Nonostante i pesanti tendaggi e il costoso sistema di climatizzazione, la parete esponeva la collezione al calore, alla luce solare e alla condensa: un incubo per qualsiasi curatore.

La costruzione originale dell’ala venne  avviata, ma non finanziata, dall’ex vicepresidente degli Stati Uniti e governatore di New York Nelson A. Rockefeller, la cui famiglia è famosa tanto per il mecenatismo artistico quanto per la ricchezza. Nel corso dei suoi decenni come trustee del Met, Rockefeller ha fatto pressione sull’istituzione affinché accettasse il contenuto del suo museo privato di arte non occidentale e precolombiana, che il Met aveva a lungo rifiutato ritenendolo troppo «primitivo» per essere considerato arte. Rockefeller ha intitolato l’ala al figlio antropologo, Michael, annegato a 23 anni nel 1961 durante una spedizione con il popolo Asmat in Papua Nuova Guinea.

Yantrasast ha ricavato un nuovo immenso spazio per esporre gli alti pali commemorativi e la barca di legno lunga 15 metri, tra le numerose opere raccolte da Michael Rockefeller durante i suoi viaggi. Il progetto sfrutta appieno le nuove tecnologie, le installazioni distintive e i portali aggiuntivi per collegare la sensibilità del pubblico odierno, politicamente attenta, alle disparate culture dell’ala, nonché al resto del museo.

La commistione quasi impenetrabile che accoglieva i visitatori nelle anguste ex gallerie d’arte africana è ora un anfiteatro arioso e fluido, dedicato alla narrazione storica e al design volumetrico. Il soffitto alto 7,5 metri si abbassa bruscamente nelle gallerie interne per poi risalire e ospitare una nuova parete di vetro ad alta efficienza energetica con un rivestimento a nido d’ape che diffonde la luce solare e riduce del 50% il consumo elettrico dell’ala.

La vecchia enfilade che attraversava la sezione dedicata all’arte africana non c’è più: il suo groviglio di vetrine è stato sostituito da «cappelle» di vetro che ospitano le opere di ogni cultura. Il nuovo soffitto è una sequenza di archi morbidi e sinuosi che aprono lo spazio e consentono una vista ininterrotta fino al cuore della sezione dedicata all’Oceania.

«Capisco che per l’arte ci voglia il buio, ma perché non può essere stimolante per le persone?, osserva Yantrasast. Non tutto dev’essere buio allo stesso modo. Si può illuminare il pavimento ma non gli oggetti. Si possono illuminare le pareti. Le persone non vogliono stare al buio, soprattutto se hanno problemi di una vista compromessa».

Lunghe installazioni diagonali dalle gallerie dell’Oceania alle Americhe e poi di nuovo all’Africa creano ora una narrazione visiva coerente che porta i visitatori a fare le proprie scoperte. Prima i visitatori potevano anche non accorgersi della collezione di pannelli blu e gialli simili ad arazzi che, osservati da vicino, si rivelano essere realizzati con 250mila piume di uccelli della foresta pluviale amazzonica. In una teca a parete situata a un’estremità di uno spazio interno poco illuminato dedicato ai tessuti andini, il primo del suo genere nel Paese, sembrano moderni pannelli in stile Bauhaus.

Un altro pezzo forte sono tre  ornamenti indossabili risalenti a seimila anni fa e rinvenuti nella valle del fiume Ohio. Si tratta degli oggetti più antichi dell’ala, dove la maggior parte risale a soli 150 anni fa. Una nuova galleria, che verrà rinnovata ogni anno, aprirà con una mostra del modernista senegalese Iba N’Diaye, la sua prima esposizione a New York.

Tra i precedenti progetti di Yantrasast figurano le gallerie degli Harvard Art Museums, l’Art Institute of Chicago e l’Academy Museum of Motion Pictures di Los Angeles, nonché nuovi edifici museali a San Francisco, Louisville e in diverse altre città in tutto il mondo. «Non ho un linguaggio architettonico che utilizzo in ogni progetto, spiega. Non sono Richard Meier. Non sono Frank Gehry e nemmeno Tadao Ando (quest’ultimo è stato il maestro e mentore con cui Yantrasast ha lavorato per sette anni al Modern Art Museum di Fort Worth prima di mettersi in proprio, Ndr). Costruisco per il luogo in cui mi trovo, aggiunge. Mi chiedo perché le persone visitano un museo, come questo possa influire non solo sull'apprezzamento culturale locale, ma anche sulla sua produzione. Come gli artisti utilizzano il museo come strumento. Sento una responsabilità nei loro confronti. Lavoro senza sosta, anche nei miei sogni. È la mia vita e mi diverto molto».

Linda Yablonsky, 14 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

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