Veduta dell’installazione video «Moving Off the Land» (2018) di Joan Jonas. Foto Ian Douglas

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Veduta dell’installazione video «Moving Off the Land» (2018) di Joan Jonas. Foto Ian Douglas

Joan Jonas non espone, condivide

Al MoMA la retrospettiva della pioniera della performance che si vorrebbe rivedere più volte

Quando è stata l’ultima volta che avete assistito alla nascita di un capodoglio? Che siete stati accolti personalmente dall’artista all’ingresso della sua mostra in un grande museo? E che vi siete lasciati coinvolgere dai video, dalle sculture, dalle fotografie e perfino dai piedistalli utilizzati in quella mostra, tanto da voltarvi alla fine per rivedere tutto? «Joan Jonas: Good Night Good Morning», la retrospettiva sulla carriera della ottuagenaria pioniera aperta al MoMA di New York fino al 6 luglio, è una mostra fondamentale. Dall’inizio alla fine, mescola un esilarante senso di stupore infantile nei confronti del mondo con la consapevolezza che la sua esistenza è in pericolo. Dà un corpo solido alla forma d’arte più effimera e che sfida il mercato, la performance. Ed è bella, come dice Jonas, con una marcia in più.

Non ho mai visto un così alto grado di eleganza e intelligenza visiva nelle sale dell’ultimo piano di questo museo. È sparita la maggior parte delle pareti bianche e opache che di solito neutralizzano gran parte dell’arte che vi è appesa. Ora le pareti esistenti e i divisori delle sale sono dipinti di nero o di un grigio tenue, mentre le file di luci soffocanti precedentemente attaccate a soffitti troppo alti per fornire un’illuminazione utile sono state riposte in magazzino. Al contrario, c’è una leggibilità essenziale per capire come le molte componenti dell’arte stratificata di Jonas si uniscano nella performance dal vivo e nella mente.

Il progetto complessivo di Hiroko Ishikawa, che ha lavorato a stretto contatto con la curatrice Ana Janevski e con Joan Jonas, fonda le idee che hanno plasmato la visione polivalente dell’artista nei materiali utilizzati per trasformare anche le sue emanazioni più documentarie in fantasmi d’arte sorprendenti e spesso accattivanti. L’organizzazione cronologica della mostra, intrinsecamente tematica, segue l’evoluzione di Jonas dalle sue prime incursioni nella performance body-positive e nelle rudimentali esplorazioni di nuove tecnologie, fino alle osservazioni sofisticate e oniriche di un mondo naturale che sta cambiando in modo irriconoscibile o che sta scomparendo del tutto, spazzato via come granelli di sabbia da quel tipo di vento forte che sferza, beh, «Wind».
Questo breve film in bianco e nero del 1968 introduce la mostra con l’accogliente titolo dell’opera, realizzata quasi 40 anni dopo. Jonas ha girato il 16 mm «Wind» su una spiaggia invernale di Long Island, dove lei e un gruppo di amici eseguono ostinatamente compiti prestabiliti contro raffiche implacabili che li fanno ripetutamente uscire dall’inquadratura, per poi farli tornare pochi secondi dopo in nuove posture.

Pietre di paragone elementari
Il film, una metafora della vita ispirata al mito di Sisifo con sfumature alla Buster Keaton, fa riferimento agli elementi naturali che sono stati pietre di paragone per Joan Jonas nel corso di una carriera che ha visto le collaborazioni con il pianista jazz Jason Moran (come «The Shape, The Scent, The Feel of Things», 2004) e la sua mostra per il Padiglione degli Stati Uniti alla Biennale di Venezia del 2015, diventare pietre miliari. L’altra opera all’inizio del percorso, «My New Theater VI, Good Night Good Morning ’06» (2006), vede l’artista nella sua casa estiva in Nuova Scozia. Sta parlando con il suo cane e con la sua videocamera, ma poiché il piccolo schermo è inserito in una scatola dipinta che assomiglia a un portachiavi per diapositive, saluta anche gli spettatori, uno per uno. Jonas non mostra tanto il suo lavoro, piuttosto il suo è un atto di condivisione. «Song Delay» (1973), ad esempio, è uno struggente filmato di una performance che Jonas ha coreografato per sé e per altri tra le macerie di un terreno raso al suolo per la costruzione del World Trade Center, mentre un pubblico composto da altri artisti la osserva da un tetto lontano.

Di tanto in tanto, Jonas ha lavorato da sola con una macchina fotografica e il suo oggetto più affidabile, uno specchio. Un racconto di Jorge Luis Borges ne ha ispirato l’uso in «Oad Lau» (1968), la sua prima performance, per la quale ha cucito sul suo costume piccoli specchi. Negli anni Settanta, quando uno dei punti cardine del femminismo era lo «sguardo maschile», Jonas lo ha rovesciato rimanendo nuda in una galleria di SoHo ed esaminando ogni centimetro del suo corpo con un piccolo specchio a mano in «Mirror Check». L’artista ha confessato di aver avuto paura di realizzare «Mirror Check», ma la paura è una grande motivazione. Ha ripetuto la performance per una videocamera, questa volta manipolando uno specchio più grande che costringeva i membri del pubblico a guardare sé stessi, mentre la sua immagine si frammentava. I video successivi, in cui è stata affiancata da altre donne che tenevano specchi a figura intera in posizione verticale e laterale, incorporano i paesaggi di campagna in cui si muovevano, deviando ulteriormente lo sguardo femminile e trasformando il corpo in scultura. Il monitor è il suo vero specchio.

Gli effetti di sdoppiamento che la Jonas apporta al suo lavoro sono iniziati con l’acquisto, nel 1972, di un Sony Portapak (primo modello di telecamera portatile, Ndr). Registrò «Organic Honey’s Visual Telepathy», il suo primo video indipendente, che aveva come protagonista il suo alter ego eroticamente mascherato e che sarebbe riapparso in performance multimediali dal vivo, allestite e installate in modo unico nel corso degli anni in diverse parti del mondo. Fu anche la genesi di un’opera complementare, «Vertical Roll» (1972). Girata durante le prove di «Organic Honey», Jonas ha manipolato la trasmissione in modo da farla sobbalzare dalla parte inferiore del monitor a quella superiore, rivelando «la meccanica dell’illusione» e dimostrando che non c’è un solo modo di guardare qualsiasi cosa.

Fiabe e saghe popolari
I teatri Noh e Kabuki hanno esercitato una forte influenza, ispirando a Joan Jonas l’uso di maschere cerimoniali o animali e di elaborati movimenti fisici e vocali. Le fiabe e le saghe popolari sono alla base di film come «Double Lunar Rabbits» (2011), mentre Dante è stato una fonte successiva. Particolarmente coinvolgente è «Volcano Saga» (1989), un film interpretato da Tilda Swinton e dal compianto Ron Vawter, e un’installazione in più parti che Jonas ha tratto dalla lettura dello scrittore islandese premio Nobel Halldór Laxness. Ma ogni performance di Joan Jonas può richiedere una lettura o una conferenza, abiti simili a kimono, cappelli di carta, copricapi di nastri e alghe, musica dal vivo, disegno dal vivo, parola parlata, paesaggi remoti, un coyote di peluche, richiami per anatre, il suo cane e la sua stessa natura di giocatrice. Disegni senza cornice raffiguranti cani, conigli e pesci appaiono in tutta la mostra, alcuni tracciati con il gesso direttamente sulle pareti o appesi, altri che pendono dal soffitto come i 14 aquiloni dipinti a mano all’uscita della mostra.

A SoHo, dove Jonas ha vissuto fin dai primi anni Settanta, The Drawing Center ospita fino al 2 giugno  «Animal, Vegetable, Mineral», una nutrita retrospettiva delle opere su carta dell’artista, indispensabile complemento della mostra al MoMA. Joan Jonas è una veterana delle retrospettive (la Tate Modern ne ha tenuta una nel 2018), ma «Good Night Good Morning» è la più completa, e fa debuttare un’opera così nuova da non essere presente nel catalogo della mostra: «To Touch Sound» è un omaggio al biologo marino David Gruber, di cui Jonas aveva già parlato in «Moving Off the Land».

«To Touch Sound» si presenta in tre box collegati tra loro, ciascuno dotato di una panchina; insieme assomigliano a una giostra da parco giochi. In uno di questi, Malcolm, il figlio sedicenne di Moran, balla davanti a una distesa d’acqua; si passa poi a Jonas che, in piedi su un ponte bagnato dalla pioggia, legge una poesia di Pablo Neruda. In un secondo video si vede una balena che dorme sott’acqua, finché Jonas non entra nell’inquadratura per tracciare grandi disegni di balene con il gesso blu, mentre lo schermo dietro di lei si riempie di pesci scintillanti alla luce delle torce. Come se non bastasse, nel terzo box appare un branco di capodogli che assiste il lungo travaglio di una di loro partoriente. I cetacei sono al suo fianco quando il piccolo si rovescia improvvisamente sulla testa della madre; il suono che si sente tra di loro è il linguaggio delle balene. Questo filmato è la prima registrazione scientifica della nascita di un capodoglio dal 1986, e quel resoconto non conteneva né immagini né suoni.

Questa non è una mostra che chiunque può apprezzare durante una passeggiata in pausa pranzo. Richiede tempo. Sia che si assista a una performance (il MoMA ne ha programmate diverse durante la mostra), sia che ci si immerga nella mostra, è meglio lasciare che la magia accada. E accadrà.

Leggi anche:
Joan Jonas: la signora delle performance
 

Veduta della mostra «Joan Jonas: Good Night Good Morning» al MoMA di New York

«Mirror Piece I» (1969) di Joan Jonas. © Joan Jonas / Artists Rights Society (Ars), New York. Cortesia dell’artista

Veduta della mostra «Joan Jonas: Good Night Good Morning» al MoMA di New York

Redazione GDA, 04 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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