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Franco Fanelli
Leggi i suoi articoliAttenti all’analfabetismo di ritorno, alla tragica arroganza di chi crede di sapere tutto e invece non conosce niente. E il teatro, anche il più sperimentale, non dimentichi mai la sua radice popolare
Toni Servillo (1959) parla delle arti visive con la cautela tipica di chi è totalmente immerso nella specificità del suo lavoro, in questo caso particolarmente coinvolgente trattandosi di uno dei più grandi attori oggi sulla scena e che evidentemente detesta la tuttologia. Eppure, da sempre, il Titta Di Girolamo struggente protagonista de «Le conseguenze dell’amore», l’uomo tramutatosi in maschera in un altro film di Sorrentino, «Il divo», l’attore teatrale che spazia da Goldoni a De Filippo, ama la coesistenza e l’intreccio tra i diversi linguaggi espressivi ed è perfettamente conscio della responsabilità civile di cui deve farsi carico un uomo d’arte.
Jep Gambardella che svela il bluff e il vuoto di pensiero di un’artista performer è una delle scene più crudelmente divertenti di «La grande bellezza». Anche lei, come il personaggio che ha interpretato, è così scettico dei confronti dell’arte contemporanea?
Jep è un certo tipo d’uomo che è facile immaginare possa avere quel tipo di relazione con l’arte contemporanea e con la performance. Però mantiene una curiosità perché nella parte finale del film va a visitare il lavoro di un altro artista che espone come sua opera le foto che ha scattato a se stesso per anni, da quand’era bambino fino all’età adulta, e lì Jep si commuove. Quindi, premesso che non stabilisco nessuna relazione tra me e i personaggi che interpreto, posso dire che mi sento come Jep, equidistante tra i due poli. L’arte contemporanea ha avuto per me e ha ancora una forte incidenza nella formazione e nella curiosità intellettuale; mi riferisco a ciò che l’arte è capace di apportare come ricchezza di linguaggi, come riflessione sullo stare al mondo. Del resto, sia io sia Mario Martone e tutto il gruppo che poi è andato a costituire Teatri Uniti («laboratorio» nato a Napoli nel 1987 dall’unione di Falso Movimento, Teatro dei Mutamenti e Teatro Studio di Caserta e fondato dai registi Mario Martone, Toni Servillo e Antonio Neiwiller, intreccia teatro e musica, cinema e arti visive, Ndr) abbiamo avuto nella galleria di Lucio Amelio, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, un orientamento molto forte.
Quali ricordi ha del rapporto con Amelio?
Questo grande gallerista ci mise in relazione con alcune delle esperienze più importanti dell’arte contemporanea. Sono stato tra i fortunati che hanno potuto condividere molto da vicino lo storico incontro a Napoli tra Beuys e Warhol: in quella circostanza, Lucio consentì a me e a Martone, che eravamo giovanissimi, con le nostre fidanzatine dell’epoca, di trascorrere un’intera giornata con Beuys. Con Lucio accompagnammo Beuys in una visita all’antro della Sibilla Cumana e a tutta la zona Flegrea, alla quale l’artista era molto interessato. Quando Warhol e Beuys s’incontrarono a Napoli ricordo una città assediata dal pubblico, come se fossero arrivati i Beatles. Ma Amelio mi consentì anche di avvicinarmi all’Arte povera, o ad altri artisti straordinari come Cy Twombly. Ho assistito quasi sul nascere all’esperienza della Transavanguardia, da cui sono scaturite delle relazioni di amicizia e delle collaborazioni artistiche, ad esempio con Mimmo Paladino, autore delle scenografie di un «Fidelio» di Beethoven che ho messo in scena come spettacolo inaugurale di una stagione al San Carlo. Quindi, se da una parte io ho un grande amore e una grande curiosità per le arti contemporanee, dall’altra, a volte, condivido in parte un atteggiamento di sospetto nei confronti di una proposta che può risultare talora una generica espressione di se stessa. Quando l’arte contemporanea coincide con un linguaggio comunicativo di tipo pubblicitario, con un’invenzione che si limita a raccogliere un segnale di comunicazione che non è legato a una dimensione dell’interiorità, ecco, in quel caso sono piuttosto d’accordo con Jep.
Nel film, però, accade una cosa rarissima nella realtà: si vede un critico, un giornalista, demolire un’opera d’arte contemporanea...
Direi che questa è una delle ragioni che hanno fatto del film di Sorrentino un film assolutamente originale.
Invece, quando si parla di cinema o di teatro, le stroncature non mancano. Solo l’arte contemporanea gode di una sorta di immunità.
Tra i due ambiti vi è una condizione di mercato diversa che credo detti anche comportamenti conseguenti. Il teatro oggi è un’esperienza in cui circola pochissimo denaro, sia per realizzarlo sia per distribuirlo, ma anche per il valore d’uso che gli si attribuisce. Altrettanto direi per il cinema, pur in proporzioni decisamente superiori dal punto di vista dell’investimento e del ricavo economici. Poi, nel caso del cinema parliamo di industria, mentre l’arte è un fenomeno legato da sempre al collezionismo, al valore d’uso che si attribuisce a un’opera e che detta una legge molto diversa rispetto alla libertà di giudizio. Ma lo dico con molta timidezza perché è una mia ipotesi, non ho mai riflettuto in maniera profonda sull’argomento.
Lei colleziona?
No, no, non sono collezionista. Come accade spesso a chi fa il mio mestiere e ha la fortuna di avere relazioni con amici pittori, ho in casa quadri di pittori che sono miei amici. Ho opere di Paladino, di Lino Fiorito e di Gianfranco Ferroni, artista che adoro: e trovo che il suo lavoro abbia orientato molto la mia relazione con il gesto artistico in generale. Non è stato soltanto un grande artista. Grazie all’amico Arialdo Ceribelli, gallerista e suo più importante mentore, ho avuto l’opportunità di leggere i suoi testi e la riflessione che accompagna il suo percorso artistico è veramente molto nutriente.
Com’è nato il libro dedicatole da Tullio Pericoli?
Da una curiosità interna al percorso di Tullio, che è quella per i ritratti. Da anni Pericoli disegna il volto di Beckett e questa è la risultante del suo rapporto con l’opera di Beckett. Da questi presupposti è nato il libro Piccolo Teatro (edito da Adelphi, Ndr) che non è un omaggio a me, né una serie di ritratti personalizzati. Io ho messo a disposizione me stesso andando nel suo atelier a recitare un pezzo di Mimmo Borrelli, che poi è pubblicato alla fine del libro, e lui mi ha fotografato in una sessione di due ore e poi da lì ha cercato di rendere conto della relazione che lui ha con il teatro attraverso il ritratto di un attore al lavoro.
Qualche anno fa ho assistito a un suo spettacolo, con protagonisti lei e Anna Bonaiuto, a Nichelino, un paese della meno attraente periferia di Torino, e mi è stato impossibile non confrontare quell’esperienza con il glamour che accompagna le manifestazioni dell’arte contemporanea...
Siamo nell’ordine dello statuto proprio che definisce la natura dei due fenomeni artistici. Il teatro ha una sua radice popolare, dalla quale quando si affranca non sempre coglie nel segno; e invece, pur mantenendo un’autonomia di percorso, o un’attenzione a un linguaggio diverso, non può prescindere mai dall’afflato della comunicazione assembleare che, quindi, trova il suo sbocco felice sia nel teatro centrale di New York o di Parigi sia nel teatro di periferia. È sempre uguale a se stesso perché trova sempre risonanza, eco, nella sua origine popolare. Per l’arte non è sempre così naturalmente, ma questo è nella sua natura.
Che cosa pensa del fatto che in questo Paese ciò che è bello, Roma come Venezia o come la città in cui lei vive, Caserta, debba sempre essere individuato anche come elemento mercificante, debba dare profitto nel nome della cosiddetta valorizzazione?
Qualcuno molto più autorevole di me in passato ha detto che la bellezza salverà il mondo, no? Ecco, io credo che oggi dobbiamo fare in modo che il mondo salvi la bellezza e quindi, se vengono iniziative che fanno in modo che la bellezza sia fruibile in quanto barriera all’orrore, alla barbarie, che la bellezza abbia anche un sua dimensione divulgativa, come occasione per riflettere sullo stare al mondo, come alfabetizzazione, beh, allora in quel caso io direi che tutte le iniziative che vengono a favorire una moltiplicazione della fruizione della bellezza, perché in questo modo ci occupiamo di salvarla, mi trovano consenziente. Naturalmente questo non deve scadere in una volgarizzazione della bellezza, in una mercificazione, ma questo insomma credo attenga a ragionamenti legati al buon senso. Quando dico che il mondo deve salvare la bellezza, significa che bisogna stare attenti all’analfabetismo di ritorno, alla superficialità, alla tragica arroganza che viene dal credere di sapere tutto e invece non conoscere niente.
Se potesse scegliere di interpretare un artista, chi le piacerebbe?
Posso dirle che sono stato per molto tempo incuriosito dall’idea di mettere in scena un testo del drammaturgo e sceneggiatore inglese John Logan intitolato «Red» e dedicato a Mark Rothko, nello specifico alla tormentata vicenda dei quadri commissionati per il ristorante newyorkese Four Seasons, una fase che coincise con una profonda crisi del pittore. Poi «Red» è stata messa in scena nel 2012 al Teatro dell’Elfo di Milano da due miei carissimi amici che sono Elio De Capitani e Ferdinando Bruni. Di quella vicenda mi affascinava il tema dell’arte come spiritualità, come gesto nobilissimo e della sua commercializzazione. Una delle letture mie preferite in questi ultimi tempi è la biografia, pubblicata da Adelphi, che Renoir figlio ha fatto del padre. È una miriade di racconti, un dialogo tra due giganti, padre e figlio, di una bellezza incredibile. Ma per me è un’eccezione. Sono meno interessato alle biografie in quanto tali e più, invece, a ciò che sottintende un travaglio spirituale, come nel caso di Rothko.
La cito: «Due figure degradate: l’attore e il docente»
La figura del docente, cui da ragazzi, pur attraverso conflittualità e scontri, abbiamo guardato attrabuendole autorevolezza, ha perduto la sua centralità nella formazione e anche nel ruolo sociale che le compete. Questo anche se si pensa agli stipendi rispetto ad altri tipi di lavori. È un lavoro al quale più nessuno ormai conferisce importanza e questo è molto preoccupante. È un sintomo dell’ignoranza e della barbarie verso la quale siamo orientati. La volgarizzazione di questo mestiere, l’accantonamento, rispetto ad altri più rampanti, riguardano anche quello dell’attore che viene considerato molto spesso un «agente mimetico» che fa sfoggio esclusivamente di un generico talento e non invece un uomo che mette a disposizione la propria vita, il proprio studio, la propria ricerca al servizio dei grandi personaggi che ci offre la drammaturgia per trasmettere valori universali, di una comunicazione che è alta.
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