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«La mondana con gli ultracorpi» (1959, particolare) di Enrico Baj, Collezione privata, Courtesy Gió Marconi, Milano

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«La mondana con gli ultracorpi» (1959, particolare) di Enrico Baj, Collezione privata, Courtesy Gió Marconi, Milano

La Pop art e il tricolore a Palazzo Buontalenti

La Fondazione Pistoia Musei presenta una grande retrospettiva sulle declinazioni italiane del celebre movimento

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Jenny Dogliani

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Boom economico e Pop Art

Piegata dal tragico e doloroso susseguirsi di due guerre mondiali, con ingenti costi in termini di vite umana, sociali ed economici, l’Italia ha conosciuto negli anni Sessanta uno dei periodi più floridi della sua storia. Il boom economico, la ricostruzione, l’urbanizzazione, l’industrializzazione e lo sviluppo dei consumi hanno determinato un’atmosfera complessiva di euforia e di fiducia in un modello capitalistico che già mostrava, agli occhi più attenti, le sue contraddizioni. Primi fra tutti gli artisti, che in quegli anni elaborarono la declinazione italiana della Pop art. Il celebre movimento, nato in Inghilterra nel 1956 con il celebre collage «Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing?» di Richard Hamilton, rilanciato dall’America all’inizio degli anni Sessanta, con Andy Warhol capofila, trovò in Italia una declinazione diversa, non tanto per la sua dimensione intellettuale e critica alla società dei consumi, che comunque non mancava neanche al di là dell’oceano, quanto per la tradizione artistica, culturale, il paesaggio e la storia con cui si trovava a rapportarsi.

Ad analizzare evoluzioni e specificità della Pop art italiana è una grande mostra visibile nel Palazzo Buontalenti a Pistoia dal 16 marzo al 14 luglio, promossa dalla Fondazione Pistoia Musei, la nuova realtà culturale nell’ambito del sistema museale promosso da Fondazione Caript e realizzata con il sostegno di Intesa Sanpaolo. Curata da Walter Guadagnini con una settantina di opere provenienti da importanti collezioni pubbliche e private, intitolata «’60 Pop art Italia», la mostra «è un viaggio nelle capitali Pop italiane attraverso i maggiori esponenti di questo fenomeno culturale, da Mario Schifano a Tano Festa, da Franco Angeli a Mimmo Rotella, da Mario Ceroli a Pino Pascali, alla “Scuola di Pistoia”», spiegano dal museo. Il percorso analizza non solo le maggiori espressioni artistiche del movimento, ma anche ilsistema di gallerie, musei, riviste, collezionisti e intellettuali che hanno contribuito a sviluppare e sostenere la Pop art made in Italy.

«Mezza bocca per G.D.» (1965) di Claudio Cintoli, Collezione privata

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«Senza titolo» (1968) di Fabio Mauri, Courtesy: Collezione Alessandro Pasotti e Fabrizio Padovani, Bologna. Ph: Carlo Favero

Il percorso di mostra

Diviso in varie sezioni, il percorso si apre con un’approfondimento dedicato alla Biennale di Venezia del 1964, passata alla storia come la Biennale della Pop art. Un anno cruciale per l’Italia che più o meno nello stesso momento in cui assisteva all’inaugurazione dell’Autostrada del Sole, 760 Km di asfalto che collegavano Milano a Napoli, il nord al sud Italia, vedeva assegnare alla 32ma Esposizione Internazionale d’Arte Il Gran Premio della pittura all’artista americano Robert Rauschenberg. Segue un focus dedicato al suo primo e principale centro propulsore nella nostra penisola, la Scuola romana di piazza del Popolo. Artisti del calibro di Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli, Mimmo Rotella, Mario Ceroli, Pino Pascali, Fabio Mauri, Titina Maselli, Giosetta Fioroni, sostenuti da galleristi quali Plinio de Martiis e Giuseppe Liverani e da intellettuali come Alberto Moravia e Goffredo Parise, si ritrovavano nel cuore della Roma antica, seduti ai tavoli del Caffè Rosati, in piazza del Popolo. Oltre duemila anni di storia e cultura si fondono con le atmosfere provenienti dalla swinging London e dalla New York underground, senza perdere la propria originale impronta neanche dopo la consacrazione della Pop art a stelle e strisce celebrata alla Biennale di Venezia del 1964. Ciò che cambia è l’approccio, spesso più concettuale, in «Senza titolo» (1968) per esempio, Fabio Mauri fa i conti con le ideologie e con la storia, l’opera è una serigrafia di Che Guevara disteso a torso nudo, l’artista non lo rappresenta nella sua veste di guerriero rivoluzionario, ma nei panni dell’uomo e del combattente morto, il corpo attraversato dalle pallottole, gli occhi chiusi, l’istante in cui da martire diventa icona globale del movimento rivoluzionario anti imperialista. Sulla tela sono scritti la parola morte, il suo nome, l’iniziale del cognome ripetuta, quasi balbettata con un filo di voce senza la possibilità di essere pronunciata nella sua completezza, Fabio Mauri fonde qui la Pop art con la poesia visiva per scardinare il linguaggio della strumentalizzazione delle immagini.

«Mezza bocca» di Claudio Cintoli raffigura invece l’ingrandimento del dettaglio di mezza bocca femminile, aperta, le labbra e la lingua rossa, i denti bianchi, le pieghe della pelle causate dal sorriso. È una rara opera legata ai due grandi murale (perduti) che Cintoli realizzò dietro al palcoscenico del Piper Club, il locale attivo nella seconda metà degli anni Sessanta, tempio della musica beat e della musica leggera in Italia. E poi le opere di Giosetta Fioroni, che di quell’epoca ricorda: «Erano anni gioiosi ed eravamo tutti giovani, oso dire abbastanza belli e dannati quantum sufficit per avere una vita piena in tutti i sensi. Quella che aveva un riflesso diverso era la pittura, rifletteva con nuova intensità la malinconica necrosi moderna, era l’espressione del centro dolente della contemporaneità… Per questo ha senso ancora adesso».

La mostra prosegue ìcon i lavori degli artisti attivi nella Scuola di Pistoia, Roberto Barni, Adolfo Natalini, Gianni Ruffi e Umberto Buscioni, presente in mostra con «Particolari» (1967), qui il muso di una lucente motocicletta, sullo sfondo una giacca, la linea e le forme geometriche di scollo, tasche e bottoni, le pieghe della sciarpa, i fili d’erba di un prato si fondono in una composizione in cui i vari elementi trovano una sintesi quasi astratta, portando allo scoperto gli elementi decorativi che si nascondono dietro le immagini della modernità. Segue Milano con le declinazioni affini alle influenze del Nouveau Réalisme elaborate da Enrico Baj, suo «La mondana con gli ultracorpi» (1959), un olio su tela dove un nudo di donna è contaminato con oggetti di consumo, gioielli e una sigaretta accesa e il soggetto appare noncurante del grottesco personaggio alle sue spalle realizzato con l’inserimento di oggetti e passamanerie. Ma ci sono anche Valerio Adami, Lucio Del Pezzo, Emilio Tadini, sostenuti dalla Galleria Milano e dallo Studio Marconi. Di Emilio Tadini figura «Vita di Voltaire. La recitazione dell’infanzia» (1967), un lavoro ricco di simbologie e allegorie che per estensione possiamo associare allo spirito illuminista, agli albori della modernità, un’opera in cui trovano sintesi le sue tante anime di scrittore, pittore, critico d’arte, poeta, drammaturgo e giornalista. Infine Torino, dove la galleria di Sperone, in collaborazione con la galleria Sonnanbend di New York e Parigi, è un approdo privilegiato per portare in Italia i lavori di Andy Warhol e Roy Lichtenstein, e in America Michelangelo Pistoletto e altri colleghi.
 

Jenny Dogliani, 18 marzo 2024 | © Riproduzione riservata

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