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Luana De Micco
Leggi i suoi articoliDopo trentun anni l’Archivio Alighiero Boetti lascia Roma per trasferirsi a Parigi. Nei nuovi locali, a due passi dalla Bastiglia, ci accoglie Agata Boetti, figlia di Alighiero, che dal 1995 è immersa nell'opera paterna, la studia, la cataloga. Circa 9mila opere sono state archiviate fino ad oggi (il 95% circa). Quando la incontriamo, in questa fine di novembre, gli scaffali della nuova sede, che aprirà a gennaio 2026, in corrispondenza (ma per semplice coincidenza) con l’uscita della prima parte del quarto tomo, l’ultimo, del Catalogo generale (1988-1994), sono ancora vuoti, in attesa di centinaia di faldoni che si stanno mettendo in viaggio proprio in questi giorni. Alle pareti dello studiolo adiacente, dove Agata Boetti accoglierà studenti e ricercatori interessati all'opera del padre, ci sono quadretti con schizzi, quadrature fatte per gioco, foto di famiglia e un ricamo con la frase che le sta più a cuore: «Non parto, non resto».
Agata, da dove nasce la decisione di trasferire l’archivio?
I numeri hanno un significato simbolico in famiglia e quest’anno ho 53 anni, l’età di mio padre quando è scomparso. Quando avevo 18 anni mi disse di andare a vivere in una città cosmopolita e mi portò a Parigi. Forse è arrivato il momento di riportare mio padre qui, dove ha iniziato, nel ’62, insieme a mia madre, Annemarie (Sauzeau, scomparsa nel 2014, Ndr). La pubblicazione di questo tomo del Catalogo generale e la riduzione del numero di opere da archiviare mi hanno portato ad una riflessione sul ruolo dell’Archivio. Quando abbiamo iniziato, non c'era internet, si lavorava con i fax, le diapositive e cartacei. È tempo di ordinare tutto questo materiale. E soprattutto eravamo in tanti, c'era mia madre e c'erano Jean-Christophe Amman, che ha firmato i primi tomi, e gli assistenti di Boetti, ma sono tutti scomparsi. Anche il collezionismo è cambiato....
In che senso?
Da rispettoso, simpatico, il collezionismo è diventato molto più esigente e piuttosto aggressivo. Prima i collezionisti di Boetti, soprattutto italiani, erano spesso amici e veri appassionati della sua opera. Oggi sono sempre di più centri di investimento e miliardari. Essendo un mercato più ampio e potente, le problematiche aumentano: statuto di opere o documentazione, guerra ai falsi, molte cause affrontate, vinte ma faticose. Ovviamente mi fa piacere che le opere di Boetti abbiano raggiunto tali quotazioni. È quello che lui voleva e anche il risultato del nostro lavoro. Certe volte gli parlo: «Ti ho portato al Centre Pompidou e al MoMA, gli dico, le aste esplodono, sii contento».
Nella tua scelta conta che Parigi sia diventata centrale in Europa per il mercato dell'arte?
Certo. La grande mostra sull'Arte Povera è stata qui, alla Bourse de Commerce. I grandi collezionisti scelgono Parigi. Fino a vent’anni fa, l’appuntamento da non mancare era la Biennale, poi Frieze London, ora è Art Basel Paris. In quei dieci giorni, incontro tutti i protagonisti del mondo dell’arte internazionale anche perché si svolgono le grandi aste. Il collezionismo di Boetti è ormai internazionale.
Raccontami questi trent'anni dell'archivio...
Boetti non ha mai catalogato nulla, quindi abbiamo dovuto ricostruire tutto. Mi diverto a pensare che abbiamo classificato un'opera inclassificabile, cosi come lui, nel '77, classificò i mille fiumi più lunghi del mondo, una pura follia. Mi sono chiesta spesso come si fa a realizzare l'archivio di un artista senza averlo conosciuto bene. Il fatto di essere la figlia, non era prioritario ma è stato di sicuro essenziale. Conoscere il suo pensiero e sapere come lo poteva applicare alle sue opere. Sapere per esempio che per Boetti non c’era gerarchia tra una piccola edizione e una «Mappa» o che per lui, «non si butta mai nulla». Se non avessi saputo come lui concepiva la sua opera, come avrei potuto fare un buon archivio? Mi chiedo spesso perché l'ho fatto, non c'era nessun obbligo legale, c'era invece un diritto morale da parte mia.
Quali difficoltà hai incontrato?
C'è una molteplicità di casi! La frontiera tra opera e edizione è delicatissima con Boetti…Lui stesso chiamava i suoi piccoli ricami: multipli unici. E le sue edizioni erano spesso tutte diverse tra loro. O ancora come gli Aerei, nati come trittici, ma che Boetti in via eccezionale aveva venduto come pannello solo... La datazione delle opere è anche un vero soggetto per Boetti…E poi abbiamo fatto una lunga battaglia contro i falsi, insieme ai Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale, specialmente quelli di Roma, e abbiamo pulito il mercato. I primi falsi sono usciti sin dalla fine degli anni '80, quando Boetti era vivo. Lui era stato avvisato dai galleristi, ma invece di allarmarsi, ne era lusingato! Allora i piccoli ricami valevano ancora poco. A 14 anni mi regalò persino il motorino dando due ricami al concessionario.
Come cambia la missione dell’archivio?
Le missioni dell’Archivio e le sue prassi non cambiano. Continuiamo a studiare l’opera, a completare il Catalogo generale e altri progetti editoriali. In caso di necessità, l’Archivio continuerà a svolgere le perizie sia a Roma che a Parigi. Arianna Mercanti, che è da sempre con noi, sarà la referente romana dell’Archivio. È insieme a lei che ho iniziato a delineare il processo di digitalizzazione. È arrivato anche il momento di ordinare questo materiale prezioso e condividerlo con studenti, ricercatori, appassionati dell'opera di Boetti. Ci sono migliaia di documenti: disegni, cartoline, inviti, interviste, riviste, persino una lettera di Liz Taylor. Poi, tra massimo dieci anni, quando avremo finito di pubblicare e ordinare tutto, cederò l'archivio a un museo, il MaXXI, il Castello di Rivoli, il Centre Pompidou, il MoMA, ancora non so.
Cosa significa per te chiudere la stagione romana e aprirne una parigina?
Non chiudo con l’Italia. L’archivio resta una struttura italiana. Diciamo che l’archivio entra in una nuova fase. Per trent’anni ho fatto la pendolare, ma dopo il Covid il mondo è cambiato. Ora le riunioni si fanno su Zoom, i programmi sono su cloud e tutto diventa digitale. Viaggiare è più caro e ha meno senso. La mia famiglia è qui.
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