Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Giovanni Curatola
Leggi i suoi articoliSui musei sono state scritte intere biblioteche. Dunque, nell’intervenire su una materia tanto vasta e complessa, corro volentieri il rischio di essere tacciato di arroganza e supponenza. Da orientalista vecchio stampo con «specializzazione» islamologica (un tempo ci si definiva «islamisti») ed esperienze nel campo come curatore di mostre non solo in Italia, oltre che archeologo e docente universitario per un quarantennio, penso che la questione «orientale» sia stata da noi non sottovalutata, ma completamente rimossa. Di fatto, non ci ha mai interessato o coinvolto.
In Italia (si veda il libro del compianto Giorgio Vercellin con l’abate Stoppani sulla via di Damasco) sono state a suo tempo flebili le voci che hanno criticato il lavoro di Edward Said Orientalism (Londra, 1978), magistrale e condivisibile se riferito all’ambito imperialistico anglosassone. Quell’analisi però non risulta puntuale e corretta se entra in campo il Mediterraneo, il Sud dell’Europa: Spagna, Italia, Francia meridionale, Grecia, i Balcani, Paesi e regioni che, con i vari Islam (termine da declinare sempre al plurale), hanno avuto a che fare per secoli, non solo su basi colonialistiche. Se faccio un giro al Bargello nella «sala islamica» riallestita nel 2024 (mi ostino ancora a chiamarla così), trovo che l’idea fondante sia pur sempre quella delle corti, prima medicea e poi granducale, e non la «quarta sponda» (espressione di epoca fascista per indicare la colonia italiana della Libia, Ndr) o il vagheggiato «posto al sole» (riferito agli imperi europei coloniali del XIX e XX secolo, Ndr).
L’abbiamo raccontato nella mostra «Islam e Firenze. Arte e collezionismo dai Medici al Novecento» (Uffizi e Bargello, 2018). Il Museo Nazionale del Bargello ha la più importante collezione islamica italiana per qualità dei manufatti. Per questo sarebbe logico che la brocchetta in cristallo di rocca (Egitto Fatimide, X secolo) a Palazzo Pitti, fosse esposta in permanenza e col rilievo che merita, insieme ai grandi capolavori di quella civiltà che non mancano nella sala. Ma la miopia, anzi, il patologico «senso del possesso» che ancora alligna e alberga nei funzionari ministeriali, ha negato lo spostamento che ha tuttora profonde ragioni artistiche e culturali. Idealmente al Bargello dovrebbero essere ospitati anche i materiali cartacei come qualche codice miniato musulmano (arabo o persiano) della Laurenziana: magari qualche esemplare fra quelli non esposti e a rotazione, e i manoscritti della Biblioteca Nazionale (invisibili se non agli specialisti).
Abbiamo un patrimonio straordinario e in gran parte sconosciuto. In Italia vi sono innumerevoli opere d’arte islamica del tutto disperse, molte delle quali arrivate in «tempi non sospetti». Nel 1993 sono venuti da tutto il mondo ad ammirare a Palazzo Ducale a Venezia parte di questo lascito esposto nella rassegna «Eredità dell’Islam. Arte islamica in Italia», con oltre 350 opere e 60 prestatori istituzionali pubblici, sparsi in tutta la penisola e isole, con il supporto e l’integrazione di raccolte private. L’utopia sarebbe quella di avere un Museo Islamico Nazionale con una sede e uno staff specialistico. Magari organizzato in maniera semplice, cronologicamente e per grandi aree geografiche, evitando i guazzabugli tematici e fuorvianti come quelli messi in atto nelle due sale islamiche del British Museum che ho avuto occasione di visitare di recente. Non si capisce alcunché e, se entrando avevi una pur vaga idea della civiltà islamica, esci dalla visita del tutto frastornato (peccato, perché la sistemazione precedente era semplice ed esauriente).
Per i musei, predicare la semplicità dell’approccio e del racconto storico e culturale non dovrebbe essere necessario, perché queste sono le basi e le aspettative minime del pubblico. Eppure, tali norme di buon senso sono assai spesso disattese. Perché un Museo Islamico Nazionale? Perché questa è anche la nostra storia. Perché Gentile da Fabriano dipinge per nove volte lettere arabe nell’aureola delle sue Vergini. E perché Giotto, Cimabue e tanti altri si sono abbeverati alla fonte dell’arte islamica. E i tappeti dipinti da Lotto, Ghirlandaio, Paris Bordon e Bassano. Non è un’arte a noi estranea, non è puro esotismo (c’è anche quello, inutile negarlo), è il nostro patrimonio identitario. Non solo in Sicilia, ma anche a Montepulciano. Ne faremo un punto di forza, concreto e tangibile, adesso che il mondo si sta rivoluzionando alla ricerca di nuovi equilibri e assetti? Questo è il vero ponte che unisce il Mediterraneo, infinitamente meno costoso di quello che qualcuno si accinge a costruire. Saremo capaci di avere una «visione» (chiedo scusa per il termine abusato)? Se non ora, quando? Non è mai troppo tardi. E, vista l’età di chi scrive, ai posteri l’ardua sentenza.

Brocchetta in cristallo di rocca conservata a Palazzo Pitti, Firenze
Altri articoli dell'autore
Dovuto alla penna di Oliver Watson, il catalogo completo delle ceramiche della collezione londinese Sarikhani è tradotto in italiano. Buon segnale, ma...
Un volume, a più (o meno) autorevoli voci, sulla collezione di opere afferenti al contesto persiano conservati nella Villa I Tatti a Firenze, già residenza del grande storico dell'arte
Gli auguri della casa editrice con opere scelte dai suoi autori | Al Museo del Bargello una placchetta in avorio per un’inedita visione della Natività con nacchere, tamburelli e ballerine per Gesù Bambino
Un volume dedicato ai cristalli di rocca e alla loro lunga storia in area mediterranea