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«Barricata #1» (2016), di Chiara Camoni (particolare). Cortesia dell’artista e SpazioA Pistoia. Foto: Camilla Maria Santini

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«Barricata #1» (2016), di Chiara Camoni (particolare). Cortesia dell’artista e SpazioA Pistoia. Foto: Camilla Maria Santini

Il pensiero magico di Chiara Camoni

In mostra al Pirelli HangarBicocca il mondo ancestrale dell’artista piacentina

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Ada Masoero

Giornalista e critico d’arte Leggi i suoi articoli

«Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse»: il titolo della mostra di Chiara Camoni (Piacenza, 1974, vive e lavora a Seravezza, in Versilia) presentata al Pirelli HangarBicocca di Milano dal 15 febbraio al 21 luglio è, oltre che una dichiarazione d’intenti, una sorta d’incantesimo che conduce l’osservatore in quel suo universo, dominato dal pensiero magico e da un rapporto primigenio con la natura, da un contatto costante con le forze misteriose che erompono da una terra intesa come Grande Madre, e da una dimensione di collettività rituale perduta da tempo immemorabile.

E l’ordinamento stesso della mostra (la più ampia di Chiara Camoni vista in Italia), curata da Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli, evoca un esterno nella natura: tanto le opere già note, come «Sisters», «Vasi farfalla», «Pavimento (for Clarice)», quanto i nuovi lavori, con cui si apre e si chiude il percorso (le due «Leonesse» in pietra leccese e i due «Cani» di alluminio, tutti guardiani di un mondo sacrale, cui si aggiungono i «Serpenti», animali ctoni per eccellenza, fatti di scaglie di onice o porcellana) sono disposti in uno spazio illuminato dalla luce naturale (oppure oscurato dal buio della notte), che suggerisce una passeggiata in un giardino o in un bosco.
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Abbiamo intervistato l’artista, che nella vasta inchiesta «Continente Italia», condotta nel 2020 e 2021 da «Il Giornale dell’Arte», e in cui 37 esperti indicarono gli artisti più interessanti attivi nel nostro Paese, figurava nelle prime posizioni.

Chiara Camoni, nel suo lavoro s’incontrano figure archetipiche, spesso a metà fra l’umano e il ferino, come in una ricerca di contatto con un mondo ancestrale, da cui ci siamo separati. Da che cosa scaturisce questa sua sensibilità?
Recentemente ho sentito l’archeologo Sandro Martini utilizzare la locuzione «antichizzare il presente». Mi è piaciuta molto, perché sembra adattarsi bene anche al mio lavoro, o comunque alle mie intenzioni. Non aspiro a una riattualizzazione nostalgica del passato, ma al contrario cerco tutta la densità e la profondità che può avere il presente nel momento in cui lo si ricollega alla Storia. Le statue votive avevano il compito di accompagnare il defunto nel viaggio verso l’aldilà, i simulacri erano sede delle divinità che raffiguravano. Ovviamente le mie «Sisters» si inseriscono in un contesto completamente diverso, ma mi domando sempre che cosa e quanto io sia in grado di attivare con le mie opere... Non è mai solo una questione di formalizzazione. Le mie «Sisters» sono creature ambigue, belle e spaventose allo stesso tempo, in costante cambiamento.

Antico, per non dire arcaico, è anche il ricorso a materiali primordiali e poveri come l’argilla, o naturali e «poveri» come rami, arbusti, bacche. La sua è una ricerca di connessione con le nostre radici più profonde o c’è anche una componente di opposizione alla tendenza dilagante alla smaterializzazione dell’arte?
Non credo che uno smartphone sia più contemporaneo di un pezzo di legno o di una pietra. Sono semplicemente due opzioni diverse, disponibili oggi. Argilla, fiori e arbusti fanno parte della mia esperienza quotidiana, così come la connessione wifi. Sappiamo che la tecnologia ci offre un accesso immediato alle informazioni, ma sappiamo anche che la conoscenza (quella vera, che presuppone una trasformazione) avviene solo attraverso la compresenza dei corpi. È la materia, nella sua accezione più ampia, che suggerisce in me l’opera; quasi mai un’idea. Sento una necessità impellente di creazione, che mi fa sentire viva, che mi permette di dare senso a questo tempo che ho a disposizione. Come quando si legge una poesia e si avverte che in quelle parole è racchiuso l’indicibile: in maniera simile, muovendo sassi, plasmando terra, avviando processi, ho la sensazione di toccare zone di intangibile.

Un’altra caratteristica del suo lavoro è lo scambio creativo intenso con una collettività (al femminile) più o meno estesa, in cui il ruolo autoriale è condiviso con altre persone. Anche questa pratica è legata a un ricongiungimento con le forme più antiche della socialità umana?
Mi piace immaginare l’autorialità come qualcosa che sia possibile aprire ad altre persone o ad altri processi, come ad esempio la stratificazione geologica o l’azione degli agenti atmosferici. Credo che la capacità di stare nell’incertezza, nel divenire delle cose, nelle zone non perfettamente delineate, sia un’attitudine femminile. Amo l’opera nella sua compiutezza e autonomia, ma amo anche tutto ciò che le si muove intorno, i passaggi intermedi della creazione e le trasformazioni che avvengono dopo. Amo definirli «punti transitori» di Bellezza e Verità. E mi sembra che la capacità di cogliere questa particolare pregnanza, instabile ed effimera, costituisca una specifica storia femminile, a volte testimoniata con difficoltà per ragioni storiche o per sua intrinseca natura. Le opere catalizzano una serie di eventi (le chiamerei epifanie) che possono avvenire nel tempo e nello spazio del prima e del dopo, nel processo della creazione e in quello della fruizione, dell’attivazione. È sufficiente essere in due per far sì che queste epifanie esistano davvero.

Ada Masoero, 13 febbraio 2024 | © Riproduzione riservata

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