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Matteo Cocci
Leggi i suoi articoliChe la nostra individualità non si possa realizzare compiutamente se non nella relazione con l’altro è un concetto caro al pensiero di alcune delle più influenti menti mai esistite, dal filosofo Jean-Jacques Rousseau alla scrittrice Premio Nobel Annie Ernaux. Declinandola dal punto di vista del cinema contemporaneo, si può riscontrare come questa idea sia tra i punti cardini della poetica di Carolina Cavalli, regista de Il rapimento di Arabella (2025), presentato all’82esima Mostra del Cinema di Venezia dove Benedetta Porcaroli – scelta nuovamente dalla cineasta milanese come protagonista dopo averle affidato lo stesso ruolo nel suo film d’esordio, Amanda (2022) – ha vinto il Premio Orizzonti per la Miglior Interpretazione Femminile. Oltre ai lavori già citati, di cui ha curato sia la scrittura che la regia, Cavalli ha co-sceneggiato Fremont (2023), diretto dal regista anglo-iraniano Babak Jalali, vincitore del Premio John Cassavetes agli Independent Spirit Awards.
In tutti e tre i film, a guidare la narrazione è una giovane donna che fatica ad integrarsi nel contesto sociale in cui vive. Per la benestante e annoiata Amanda, l’ostacolo apparentemente insormontabile è quello di stringere un rapporto di amicizia, impresa che affronterà con determinazione solo dopo aver scoperto di aver un tempo avuto in Italia un’amica da cui era stata separata per via del trasferimento della propria famiglia a Parigi; nel caso di Donya (Anaita Wali Zada), la protagonista di Fremont, le difficoltà derivano dal fatto di essere una donna afghana costretta a trasferirsi in California a seguito del ritiro delle truppe americane con cui aveva collaborato come interprete, ritrovandosi in una condizione di profondo straniamento e di senso di colpa; per quanto riguarda Holly, ne Il rapimento di Arabella, il disagio è generato dal dubbio di aver fatto scelte di vita errate, tanto da convincersi, quando è avvicinata dalla piccola Arabella (Lucrezia Guglielmino) in fuga dal padre assente, di trovarsi di fronte sé stessa da bambina, imbarcandosi con lei in un disperato tentativo di riscrivere il proprio passato.
Un frame di Amanda (2022) diretto da Carolina Cavalli
Un frame di Il rapimento di Arabella (2025) diretto da Carolina Cavalli
Il destino, per questi tre personaggi, sembra essere lo stesso, ovvero il venire patti con le proprie stranezze, sensi di colpa e insuccessi: Amanda per la prima volta troverà una missione cui dedicarsi con tutta sé stessa, scegliendo di ricucire o, piuttosto, di dar vita a un rapporto in cui potersi finalmente identificare; Donya accetterà di non avere responsabilità nella sua scelta di abbandonare la terra natia, acconsentendo a lasciare aperto uno spiraglio attraverso cui far entrare qualcuno che diventi parte di questo nuovo capitolo della sua vita; Holly, vedendo sfumare il sogno di rimediare retroattivamente ai propri errori, capirà che accogliere la sua attuale condizione, per quanto spiacevole, è l’unica via per poter aspirare a una vita migliore.
Lo stile con cui Cavalli mette in scena queste storie, in particolare nei film di cui è regista oltre che autrice della sceneggiatura, è tutto meno che scontato, soprattutto se confrontato al resto della produzione cinematografica italiana, storicamente attenta – si veda una corrente fondante del cinema nostrano come il Neorealismo – a una rappresentazione fedele della realtà: i mondi finora presentati nei suoi film non sembrano appartenere al nostro universo, laddove, soprattutto ne Il rapimento di Arabella, la desolazione della periferia veneta e romagnola si tramuta in un paesaggio sospeso, da fiaba contemporanea, che per certi versi ricorda lontani territori di confine – come quelli a cavallo tra Stati Uniti e Messico, a cui la topografia e le atmosfere delineate da Cavalli rimandano ripetutamente – più che le province di Padova, Rimini e Ferrara, dove si sono svolte le riprese.
La stessa psicologia degli interpreti de Il rapimento di Arabella – ognuno in preda alle proprie nevrosi: Oreste (Chris Pine), il padre di Arabella, è uno scrittore frustrato, mentre Maccarino (Marco Bonadei), il poliziotto incaricato di dare la caccia alle due fuggitive, si destreggia come un bambino intrappolato nel corpo di un uomo adulto, incapace di ascoltare i propri desideri – è anomala e surreale. L’approccio della regista al racconto filmico sembra in questo senso ricalcare quello che i suoi personaggi applicano al contesto quotidiano, disposti a tutto pur di sfuggire a un confronto con la realtà che potrebbe risultare per loro distruttivo.
Un frame di Il rapimento di Arabella (2025) diretto da Carolina Cavalli
Un frame di Amanda (2022) diretto da Carolina Cavalli
A uno sguardo più approfondito, tuttavia, l’assurdo catturato dalla cinepresa di Cavalli mette in mostra le idiosincrasie che contraddistinguono l’essere umano meglio di qualsiasi narrazione che si ostini a riprodurre il reale in quanto tale. Le sue protagoniste – incarnate da una Benedetta Porcaroli che indossa perfettamente i panni di due ragazze strampalate, disorientate e in perenne lotta con la propria identità – tracciano un nuovo paradigma di normalità, per molti versi più credibile delle rappresentazioni cinematografiche che consideriamo “canoniche”.
Sebbene le opere di Carolina Cavalli non siano prive di alcune debolezze strutturali – le atmosfere stranianti, quando esasperate, possono risultare respingenti, mentre il ritmo del film soffre talvolta di una eccessiva dilatazione temporale –, una qualità che le va riconosciuta è l’onestà con cui affronta le vicende che racconta.
I profili umani che disegna sono tridimensionali e complessi: da un lato iper-consapevoli, dall’altro totalmente ignari delle ragioni e dei sentimenti che li agitano. Imperfetto come le anime cui dà voce, il cinema di Cavalli sceglie di percorrere una strada alternativa, non più “alta”, ma parallela a quella convenzionale. Un percorso artistico che non scende a compromessi, preferendo scommettere sulle proprie virtù ma soprattutto sulle disfunzionalità che lo attraversano, consapevole che sono proprio queste ultime a renderlo diverso da tutti gli altri.
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