Giuseppe M. Della Fina
Leggi i suoi articoliGian Francesco Gamurrini (Arezzo, 1835-1923) è stato uno dei maggiori archeologi italiani nel primo cinquantennio post-unitario. Il suo impegno si concentrò nella difesa del patrimonio archeologico della nuova Italia, a partire dagli anni immediatamente successivi all’unificazione del Paese; nella creazione di una rete di musei archeologici e negli sviluppi delle ricerche di topografia antica con la progettazione e l’avvio della Carta Archeologica d’Italia.
Nel ripercorrerne l’attività abbiamo una testimonianza di particolare valore: l’autobiografia che iniziò a scrivere nell’estate del 1920 a Bagno di Romagna dove si trovava per riprendersi «da una caduta che mi produsse nel gennaio dell’anno decorso l’investimento di una bicicletta». Aveva 85 anni, essendo nato ad Arezzo nel 1835, e quindi le memorie coprono gran parte della sua vita. Esse vennero pubblicate postume nel 1924, Gamurrini era scomparso nel 1923, negli Atti e Memorie della R. Accademia Petrarca di Scienze, Lettere ed Arti in Arezzo, a cura di Corrado Lazzeri, che era stato un suo amico e seguace. Sono state riproposte di recente, in occasione delle iniziative per ricordare il centenario dalla morte dell’archeologo aretino, dalla casa editrice Johan & Levi.
Vi si ripercorrono le tappe della vita: la nascita in una delle famiglie più nobili della città; la prima educazione con insegnanti privati; la frequentazione del Collegio della Sapienza di Perugia dal 1845; il rientro ad Arezzo e la continuazione degli studi di nuovo con insegnanti privati; la nomina a socio del prestigioso Instituto di Corrispondenza Archeologica; la frequentazione dell’Università di Roma; l’affidamento della direzione dei «Musei di Antichità di Firenze» dal luglio 1867, la cui notizia ricevette mentre: «stavo nell’aia di un mio podere a provare una macchina battitrice». E, ancora, la chiamata a Roma, presso la Direzione Generale delle Antichità e dei Musei del Regno, come Regio commissario nel 1875; la rottura dei rapporti con la Direzione Generale; il successivo rientro al Ministero con l’incarico di Commissario dei Musei e degli Scavi dell’Etruria e dell’Umbria; la responsabilità della Carta Archeologica (presto, comunque: «questa bella e utile impresa fu troncata e spenta», come ricorda). E, infine, il ritorno ad Arezzo con l’impegno nelle istituzioni cittadine e, in particolare, presso la Fraternita dei Laici, seguito da polemiche che lo amareggiarono a fondo; la morte del figlio maggiore Giovanni al termine della Prima guerra mondiale; gli anni finali della vita trascorsi sempre studiando.
Nell’autobiografia c’è il ricordo esplicito delle sue posizioni culturali e politiche, che consentono di conoscerlo più da vicino: «Passavo per clericale, mentre ero ben diverso, secondo il significato che si dava allora a tale parola, vale a dire tenevo nel mio animo congiunte religione e patria».
Si è accennato, in apertura, al suo impegno a difesa del patrimonio archeologico e della battaglia affinché l’Italia si dotasse di una legge idonea allo scopo e, allora, vale la pena richiamare alcune righe del suo articolo «Delle recenti scoperte e della cattiva fortuna dei monumenti antichi in Italia» pubblicato nella rivista «Nuova Antologia», nel maggio del 1864: «Credo che l’onore dell’Italia, della storia e dell’arte la richiedano urgentemente, e credo che si possa rispettare il diritto di proprietà anche col frenare un poco una cupidigia rapace ed un’ignoranza demolitrice». Né si possono dimenticare le sue posizioni favorevoli al decentramento e all’istituzione di musei locali nella piena consapevolezza dell’importanza di non estrapolare, o, almeno, non allontanare troppo i reperti dal luogo del loro ritrovamento. In proposito, si pensi, almeno, agli interventi a favore di quelli di Fiesole, Orvieto, Chiusi e della sua Arezzo.
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