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Elena Franzoia
Leggi i suoi articoliCon la grande mostra «L’Africa e Bisanzio», dal 19 novembre al 3 marzo 2024 il Metropolitan Museum of Art affronta il finora pochissimo indagato tema dell’influenza bizantina in terra africana e dei reciproci influssi tra le due aree culturali nel periodo compreso tra IV e XV secolo. Organizzata in collaborazione con il Cleveland Museum of Art, che ne ospiterà la seconda tappa, la mostra espone quasi 200 opere di cui molte mai finora giunte negli Stati Uniti, proponendo anche nuovi studi sull’Africa medievale.
Resa possibile dalla Fondazione Ford, dalla Giorgi Family Foundation e da Mary Jaharis con un ingente contributo del National Endowment for the Humanities, la mostra è curata da un team tutto femminile capeggiato da Andrea Achi e composto da Helen C. Evans, Michelle al-Ferzly e Kristen Windmuller-Luna. «Riunendo le innovative ricerche di oltre quaranta studiosi di tutto il mondo, rese possibili anche dall’assegnazione di nuove borse di studio, afferma Achi, la mostra affronta il modo in cui per oltre mille anni le diverse comunità legate a Bisanzio fiorirono negli imperi e nei regni africani. La mostra mira ad ampliare la conoscenza del mondo bizantino, della sua portata e autorità transculturale e a esaminare il ruolo fondamentale delle prime civiltà cristiane africane nella sfera artistica e creativa, abbattendo radicati pregiudizi».
All’insegna di una interdisciplinarità che ingloba arte, religione, letteratura, storia e archeologia, le principali tematiche affrontate sono tre: l’Africa nell’Impero bizantino, lo sviluppo del Cristianesimo nei regni africani tra IV e VII secolo, e il concetto di aldilà nelle differenti tradizioni religiose e artistiche fiorite in Tunisia, Egitto, Sudan ed Etiopia tra VIII e XV secolo. Con prestiti provenienti dai più importanti musei archeologici del mondo, la mostra presenta un ventaglio di opere quanto mai differenziato, che dai mosaici romani prodotti con calcari e marmi locali da artigiani tunisini, oggi al Museo di Cartagine e al Louvre, giungono ad affreschi monumentali, dipinti su tavola, manoscritti miniati, gioielli e ceramiche.
Tra le opere più significative appare un arazzo egiziano del V secolo, oggi nelle collezioni del British Museum, che rappresenta con figure nere il mito ovidiano di Artemide e Atteone, testimoniando non solo perduranti questioni razziali, ma anche il duraturo impatto della classicità sulle arti dell’Africa tardoantica. Significative della poliglotta élite culturale rappresentata dai nubiani medievali sono invece le rappresentazioni di vescovi e dignitari nubiani provenienti dalla Grande Cattedrale di Faras, attualmente sommersa dal Nilo, oggi conservate nei musei nazionali di Khartoum e Varsavia.
Fondamentale appare anche il contributo del Corno d’Africa e in particolare dell’Etiopia, soprattutto nell’importazione e diffusione di icone cristiane dal Mediterraneo e dall’Europa occidentale. Esemplare in questo senso è il «Trittico della Vergine Maria» (XV secolo) proveniente dallo Smithsonian National Museum of African Art, che rese popolare in Egitto e lungo tutto il corso del Nilo l’iconografia della Madonna che allatta. Il catalogo che accompagna la mostra, distribuito da Yale University Press, presenta i contributi dei 40 studiosi coinvolti nel progetto, provenienti da Tunisia, Egitto, Etiopia, Libano, Italia, Francia, Regno Unito, Polonia e Stati Uniti.

Frammento tessile con Artemide e Atteone, bizantino (Akhmim, Egitto), V-VII secolo

Busto di bambino africano, romano, II-III secolo d.C.
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