Stefano Causa
Leggi i suoi articoliCome ce la caveremmo se in una chiacchiera non calcistica ci esortassero a definire in non più e non meno di tre aggettivi Gargantua e Pantagruele uscito nel 1542, quando, a Roma, Michelangelo lavora agli affreschi della Cappella Paolina e Tiziano alla «Danae»? Monumentale, inesauribile, stravolgente? Per molto meno rischieremmo di farci menare da Pantagruele che, nel sesto capitolo del secondo libro, al ritmo di «merda, merda» tenta di strozzare lo studente parigino (limosino) che gli parla in modo aulico («bisogna evitare le parole antiquate, con la stessa diligenza con la quale i nocchieri evitano gli scogli del mare»). Più ficcante quella terna di «diffuso, turgido, fangoso» che suggeriva Ferdinando Neri nella voce su François Rabelais nella «Treccani» del 1935?
Meglio deporre ogni velleità aggettivale e correre al testo di mezzo millennio che, da noi, ha sempre avuto un successo, diciamo così, intermittente. Già nel 1923, un anno dopo la marcia su Roma, il Neri stesso argomentava di «dubbia fortuna di Rabelais in Italia». Né trent’anni dopo, in pieno neorealismo, allorché lo scrittore novarese Mario Bonfantini lo traduceva per Einaudi, pare che le cose fossero granché cambiate. Rabelais continuava a cercare lettori disposti a salire sul suo ottovolante. E oggi? Come se la passano le mille pagine del romanzone in epoca di social? Si potrebbe andare a bussarvi, di nuovo, passando dalle copertine.
Per esempio quelle dell’edizione in tre volumi, curata da Gildo Passini nel 1925 per i «Classici del ridere» di Formiggini dove Gargantua e Pantagruele hanno la faccia e le mosse di Doré. E noi queste illustrazioni del 1854 le riguarderemo anche come una lezione su Rembrandt e sul modo in cui Rembrandt avesse corso a Parigi negli anni di Courbet e del giovane Manet; certo questo Rabelais riletto da Doré con gli occhi di Rembrandt ha forgiato la percezione dello scrittore anche nella scena italiana tra le due guerre. Comprensibile, dunque, lo sforzo di «dedorizzazione» cui hanno teso gli altri illustratori a finire con un puro modenese come Giuliano della Casa, classe 1942, che, mettendo insieme Otto Dix e Carol Rama, introduce Rabelais per i Millenni Einaudi ormai vent’anni fa.
Mettiamo nel sacco Rabelais quest’estate. Magari con la scorta di un gran lettore libero (perciò grande scrittore) come Kundera che su Gargantua e compagni si è soffermato in quei Testamenti traditi che, tradotto da noi trent’anni fa (Adelphi), continua a sembrare uno dei titoli utili a leggere (e a vedere) adottando un metro di giudizio e non di pregiudizio. «L’invenzione dello humour» che apre e chiude la prima parte del libro è una lezione su Rabelais. Kundera ricorda quando, ventenne, leggeva agli operai l’edizione in cecoslovacco che teneva sotto il materasso. Precisamente i capitoli 21 e 22 del secondo libro in cui, rifiutato ripetutamente da una dama di Parigi, Panurge si vendica cospargendole l’orlo del vestito dei brandelli di una cagna in calore. Al che una torma di cani, seicentomila quattordici per la precisione, fuori della chiesa le corre dietro fino a casa pisciandole addosso.
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