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Uno dei tableaux vivants del film «La ricotta» di Pier Paolo Pasolini, creati dal costumista Danilo Donati, chissà se ispirato dalle immagini pubblicate nel volume «Manierismo» di Giuliano Briganti, pubblicato nel 1961 da Editori Riuniti di Roma

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Uno dei tableaux vivants del film «La ricotta» di Pier Paolo Pasolini, creati dal costumista Danilo Donati, chissà se ispirato dalle immagini pubblicate nel volume «Manierismo» di Giuliano Briganti, pubblicato nel 1961 da Editori Riuniti di Roma

Volumi d’arte: il catalogo è per tutti, la monografia per pochi

Viaggio nei meandri di libri e fascicoli che hanno fatto la storia del libro

Stefano Causa

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Dei libri d’arte ciascuno ha una playlist in base ai gusti, alle scuole o ai maestri venerati. Ma comprati, presi in prestito o rubati, i libri d’arte sono un distintivo generazionale più attendibile di altri. Se cravatte, ombrelli e orologini da polso non sono cambiati più di tanto in un secolo e mezzo, i libri d’arte sono invece cambiati, e molto. Dalla collana «Attraverso l’Italia» del Touring Club nel XIV anno dell’era fascista (1936) alla distribuzione dei fascicoli dei «Maestri del colore» dei Fratelli Fabbri trent’anni dopo, con il miracolo di grandi fotocolor a tutta pagina, fino ai cataloghi in cofanetto delle mostre di fine anni Settanta e all’oltraggiosa eleganza delle edizioni di Franco Maria Ricci, i libri d’arte hanno cambiato pelle mille volte. E noi appresso a loro, mentre si schiudevano porticine e ingressi principali per imparare il mestiere. 

I primi per l’arrampicata? Zoppicavano nelle immagini. Chissà se a colori, il Medioevo o il Trecento di Pietro Toesca avrebbero illuminato, si fa per dire, i secoli bui presso un pubblico vasto. Scritto nel 1945 come recensione a una mostra, il Viatico per cinque secoli di pittura veneziana di Roberto Longhi nell’edizione Sansoni ha 166 tavole: tagliate cinematograficamente dall’autore, convinto, come il buon Walter Benjamin, che «ogni giorno si fa valere in modo sempre più incontestabile l’esigenza a impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata all’immagine». Centrale, anche per la letteratura italiana, il Piero della Francesca di Longhi nelle tre edizioni (dal 1927 al ’63, con 22 tavole a colori) è, nel corredo iconografico, animale diverso dal Piero Adriatico (304 a colori) di Alessandro Ballarin. 

Per chi si avvicini ai sessant’anni Longhi, insomma, rimane il primo dazio per annusare la disciplina (il veneto Ballarin è venuto dopo). Ma né l’uno né l’altro avrebbero previsto che, un giorno, le foto in alta definizione avrebbero reso superflua l’esperienza delle opere dal vivo. Per uno studente millennial sottoposto a un continuo orgasmo visuale che annichilisce lo sguardo (è la distrazione, non il narcisismo, l’effetto collaterale del digitale) sono inimmaginabili epoche di vacche tipograficamente magre. 

 

Rosso Fiorentino, «Deposizione di Volterra», 1521. Volterra, Pinacoteca Civica

Chi ha più foto vince: era il motto antinclusivo che vigeva tra gli storici d’arte più facoltosi. Almeno fino alla fine del secolo scorso quando tutti, buoni e cattivi maestri, esortavano alla verifica dal vivo, le riproduzioni fungevano giusto da scintilla. Ma poi viaggiava solo chi poteva; e libri e cataloghi erano appannaggio di chi vivesse o capitasse a Firenze o Roma, uniche città con biblioteche di storia dell’arte di riferimento e a rifornimento continuo. Oggi, però, tra liceo e università hai già le foto di tutte le opere del mondo a portata di mouse e tutte, ormai, equivalgono agli originali. Ieri, invece: grandi testi, piccole foto. E, nelle aule, diapositive stipate in carrelli precari: questa la norma fino all’Italia del boom economico quando cominciammo a scoprire il Paese, tra borghi piccoli e grandi, grazie all’intervallo Rai con le musiche di Haendel, Couperin o Paradisi riarrangiate per l’arpa solista di Anna Palomba Contadino. 

Erano tempi di libretti spartani dove ai maestri del colore veniva sottratto il massimo atout. Basti, finita la guerra, considerare anche soltanto la panoramica di John Rewald sull’Impressionismo, con pochi cliché a colori, pubblicata da Sansoni nel 1949 per le cure di Antonio Boschetto. Un libro essenziale, inclusa la prefazione di Longhi utile a capire perché l’Ottocento italiano sia sempre stato più amato dal pubblico che dai critici. Ma Renoir, Sisley e Monet in bianco e nero? Non stanno in piedi. C’è chi dice che i manuali su carte povere e con foto inadeguate sono stati causa della disaffezione degli italiani verso le storie dell’arte... 

Alla fine degli anni ’50, in piena maturazione del Neorealismo in Italia, parte l’impresa dell’Enciclopedia Universale dell’Arte. A officiare, Mario Salmi, protetto da un comitato di garanti che schiera in cima, in ordine alfabetico, nientemeno che l’architetto Alvar Aalto. Salmi è più che ottimista, ma non vede lungo («Uno dei fatti più caratteristici del nostro tempo è l’interesse per le arti figurative e i loro problemi, diffuso con ampiezza e vivacità senza precedenti in ogni settore della cultura e quasi ogni ceto», scrive nella presentazione). Le singole voci sono altalenanti come in ogni sforzo corale; ma il pregio sta nell’apparato iconografico (Federico Zeri dirà che ne aveva comprato due copie, scorporando dalla seconda il materiale). Pochi anni e cominciano a uscire libri dove testo e immagini erano complementari. 

Nel ’65 Mario Spagnol pubblica La pittura riminese di un longhiano di ferro come il bolognese Carlo Volpe. Quasi tutto bianco e nero. Tre anni prima un altro longhiano, diversamente allineato, come Ferdinando Bologna, abruzzese e regnicolo, aveva rivelato la fiorita cromatica della pittura italiana delle origini (1962, a 10mila lire). Insomma, se aggiungiamo il Giotto coloratissimo di Giovanni Previtali del ’64, viene il sospetto che i migliori libri della nostra vita siano sull’arte medievale. Ma vi sono subito delle eccezioni. In uno dei primi editoriali della rivista «Paragone», il solito Longhi aveva scommesso sulle nuove possibilità indotte dalle riproduzioni a colori, auspicando l’avvento di un’era cromatica. Ed effettivamente i colori delle «Deposizioni» cinquecentesche di Rosso Fiorentino e del Pontormo sono entrati nella cultura moderna grazie al Manierismo di Giuliano Briganti. Resta solo da immaginare Danilo Donati, costumista di Pier Paolo Pasolini, chino su quel volume pubblicato nel ’61 da Editori Riuniti di Roma per ricreare i «tableaux vivants» per «La ricotta».

Jacopo Pontormo, «Deposizione». Firenze, Chiesa di Santa Felicita

Benché scorrano lungo un canale privilegiato dell’editoria, i libri d’arte sono un filone delle patrie lettere quasi ignoto ai filologi e ai comparatisti. Senza contare che le pescate migliori si fanno fuori del recinto degli addetti ai lavori. Messe in fila, le copertine Adelphi assemblano la più sorprendente lettura della pittura moderna fuori dell’imperio formalistico di Cezanne e Picasso. Storico d’arte in senso largo, Roberto Calasso, gran timoniere di Adelphi, ha ributtato in mezzo Vallotton, i tedeschi della Nuova Oggettività e maestri nostri come Clerici o Savinio, non troppo graditi all’establishment di sinistra. L’edizione con immagini del suo Le nozze di Cadmo e Armonia, uscito in 500 esemplari nel 2008, è uno dei libri di storia dell’arte più sfacciatamente belli di questo ventennio.

Convinto che una rivista andasse inventata a partire dalle immagini, lo spettacolo d’arte varia di Franco Maria Ricci va in scena dal marzo 1982. Il primo fascicolo di «Fmr», la rivista più bella del mondo (come se si parlasse di una top model tipo Cindy Crawford) riserva reliquiari di oro e argento e ritratti seicenteschi di ville medicee. Qualcuno venne fuori col dire che temi così defilati non meritassero tanta manifattura. Tragico equivoco se, simmetrico e speculare a Calasso, Ricci stava invece giocando la carta di un’enciclopedia d’arte non vista o poco vista! E continuò per la sua strada mentre cambiavano i rapporti di prospettiva con il paesaggio editoriale italiano ed europeo. L’abbonamento a nove numeri costava 35mila lire e ti regalavano pure l’agenda (questa sì tra le più belle del mondo). Ma fu col numero d’esordio che ci accorgemmo che, su fondo nero, erano opere d’arte a tutti gli effetti le cucine Smeg, le Jaguar o i tailleur di Armani. Ricci capisce che «una rivista va inventata a partire dalle immagini». 

Alla fine degli anni ’70, con l’uscita dei volumi in cofanetto della panoramica napoletana di «Civiltà del ’700» curata da Raffaello Causa (1979), la madre di tutte le mostre di fine millennio, aveva cominciato a consumarsi la scissione, un punto di non ritorno, tra cataloghi di mostre e monografie. Con l’inevitabile equazione che le monografie stanno ai musei come i cataloghi alle mostre. Il catalogo spariglia le carte, la monografia prova a stabilizzare il gioco. Il catalogo è per tutti, la monografia per pochi. Pure, le folle che assediano oggi Palazzo Barberini non si scomoderebbero per i Caravaggio stabilmente nelle gallerie romane. Ed è questo il motivo per cui se il catalogo della mostra è già esaurito le case editrici non invitate al banchetto sono, oggi, variamente agonizzanti. 

«Non si può sostenere di avere visto qualcosa finché non lo si è fotografato», faceva notare Emile Zola a Luigi Capuana nel 1901. A cui farà eco un americano, Emmet Gowin, quarant’anni dopo con quest’essenziale integrazione: «La fotografia è uno strumento per occuparsi di cose che tutti conoscono ma alle quali non badano». Sono didascalie utili a saggiare il momento in cui il fotografo si smarca dal ruolo di servo di scena, di gregario dello storico d’arte, per assumere quello di copilota. Segnali ce ne sono tanti: Clarence Kennedy che fotografa il portale maggiore di Santa Maria Novella a Firenze o Giacomo Pozzi Bellini alla prese con le sculture pisane del Trecento o, nel secondo Novecento, il dettaglio della copertina del catalogo della Galleria Borghese dove Cesare Barzacchi stacca il dettaglio della bocca di Dafne nel gruppo berniniano. Dozzine di altri ne potrà reperire chi si accingesse al libro ormai essenziale, imperniato, appunto, su una storia fotografica della storia dell’arte. Ma anche di questo dovremo riparlare.

«La speranza», particolare dal monumento Forteguerri di Andrea del Verrocchio, fotografata da Clarence Kennedy

Stefano Causa, 18 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

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