Stefano Causa
Leggi i suoi articoliProbabilmente l’acme della fortuna nelle terre dell’Oxfordshire della «Pietà» (1512-16) di Sebastiano del Piombo, il disegnatore e pittore veneziano amico di Michelangelo, sta nella quarta di copertina di «Pablo Honey», album d’esordio dei Radiohead. Trent’anni fa non poteva che celebrarsi in modo anticanonico quest’incontro tra il pittore addetto alla piombatura dei documenti pontifici e il più importante quintetto inglese di fine millennio di musica non eurocolta. Il Cristo che giace in prima piano nella tavola viterbese ricompare qui rovesciato, a testa sotto, mentre la sagoma violacea si sovrappone in trasparenza a una via di una città che potrebbe essere Londra (non si capisce, né è importante si capisca). Sebastiano del Piombo è in controcanto alla copertina vera, la cover front, consacrata a un neonato dentro un fiore che cova qualcosa della fissità ipnotizzante dei Teletubbies ma, più precisamente, evoca sottofondi visivi della nostra giovinezza come i neonati (letteralmente) in fiore dell’australiana Anne Geddes che, trenta o quarant’anni fa imperversavano nelle edicole, librerie e cartolibrerie.
Uscito nel 1993, quando ormai da dieci anni i Cd avevano soppiantato i vinili «Pablo, caro» è un lavoro di cui si parla in genere con riserva e di cui, pare, oggi gli stessi autori si siano pentiti perché contiene, come seconda offerta del lotto, «Creep», ultimo pezzo rock credibile di fine millennio, 4 accordi 4, un giro di chitarra regalato ai principianti assoluti da uno dei più innovativi e imprevedibili chitarristi moderni, Jonny Greenwood; poco più o poco meno di tutto quello che la band di Tom Yorke, classe 1968, proverà a superare, dal 1997 al 2001, dopo averlo portato al diapason. E se lo ascoltiamo alla luce di «Ok Computer, Kid A» e «Amnesiac Pablo Honey» è disco certo stilisticamente e culturalmente più immediato. Ma è corretto giudicare un prodotto da quanto fatto dopo? Come presentassimo Picasso dalla «Prima comunione» del 1896 usando il parametro dei quadri blu e rosa o se ci affacciassimo dalla «Casa dell’Impiccato» per valutare le «Quattro stagioni» di Cézanne del Petit Palais (1860).
A riascoltarlo oggi, senza distrazioni, «Pablo Honey» pare un esordio folgorante oltre che, in definitiva, uno dei più bei dischi degli anni ’90; quantomeno tra i pochi giocati su un’intenzione formale scopertamente cantabile. Se poi foss’anche il più brutto disco dei Radiohead rimarrebbe il disco brutto della band fondamentale di fine millennio (e allora ad avercene come Pablo!). Resta dettaglio di Sebastiano calibrato quasi come una ghost track nella quarta. Nel prosieguo, come avevano imparato innanzitutto dai Beatles, i Radiohead intuiscono che ad ogni incremento stilistico debba corrispondere un cambio di passo nell’art working. E già a partire dal 1995 con «The bends», le bende (ultimo grande disco di chitarre del pop moderno) si rivolgono a quello che, nello spazio di un lustro e in una manciata di copertine, diventa a tutti gli effetti il sesto Radiohead.
Dal 1995 Stanley Donwood, uno dei grandi pittori inglesi viventi, prende le redini dell’iconografia del gruppo e prova a immaginare il perfetto corrispettivo per una scena sonora destrutturata, fatta di schegge, di abbozzi di melodie che non si chiudono mai per un pubblico che, proprio allora, cominciava a coltivare in grande stile l’arte della distrazione. «What do you think about the Radiohead?» (Cosa pensi di loro e della loro musica?), e lui risponde creando creature contratte e impaurite, negativi di foto trattate, diagrammi e tracciati, schegge di paesaggi ghiacciati. Maestosi ma inabitabili. Ostili. Tutto è esploso. Non ci resta che provare a ricomporre i pezzi.
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