Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Image

Giovanni Battista Salvi detto il Sassoferrato, «Presepio», Napoli, Real Bosco e Museo di Capodimonte

Image

Giovanni Battista Salvi detto il Sassoferrato, «Presepio», Napoli, Real Bosco e Museo di Capodimonte

Un presepe dolce e silenzioso nella Napoli vociante

Il vero spirito del Natale è nella luce dorata di un capolavoro del Sassoferrato conservato nel Museo di Capodimonte

Stefano Causa

Leggi i suoi articoli

Dentro una luce dorata e con una piccola musica il nostro Natale 2025 lo festeggeremo al Museo di Capodimonte. Tre pastori sono inginocchiati in adorazione del Bambino. Uno porta un agnello sulle spalle a mo’ di zaino; l’altro modula il flauto (uno scugnizzo come quelli dipinti da Le Nain). L’ultimo, indietro a tutti, ha il bastone. A centro pagina sbuca il muso dell’asino inquadrato dalla cavezza (subito dietro il bue). In rosa, blu e bianco la Vergine prega sul Bambino; è in compagnia di Giuseppe, disorientato, come ripiegato. In alto un trio di angeli diversamente sgambettanti srotola le prime parole dell’inno alla nascita di Gesù. 

Marchigiano cresciuto a Roma, Giovanni Battista Salvi, detto Sassoferrato (Sassoferrato, 25 agosto 1609-Roma, 8 agosto 1685) non ha dipinto il presepe più bello del Seicento. Piuttosto l’unico. Sorprende che per vederlo si debba andare in una città di mare dove la tradizione va precisamente nella direzione opposta. 

A Napoli il presepe è vociante. Carbura al massimo volume di presentazione. Procede per accumulazione. È un presepe in cui digressioni e ornamenti stoppano sul nascere ogni tentazione sacrale. Nel 2025 le statuine di Ornella Vanoni, Giorgia Meloni, di rapper, calciatori e tennisti spuntano tra gli astanti del presepe napoletano: l’ingresso ne misura la popolarità, la loro popolarità ne legittima l’ingresso («la volgarità è essenziale al Natale» commenta Giorgio Manganelli nel Presepio pubblicato postumo da Adelphi nel 1992, come avesse fatto un giro dalle parti di San Gregorio Armeno). 

Nessuno sarebbe in grado di enumerare tutti i partecipanti ai presepi napoletani. Una folla non ha volto. Mentre questo apice giovanile del Sassoferrato, che combina Gentileschi e Vermeer, è un quadro da imparare a memoria. Sfortunatamente in questa epoca in cui si osanna Caravaggio Sassoferrato sfugge ai radar del gusto. Né quelli attuali sembrano tempi propizi all’attenzione ncessaria per apprezzare queste intavolature cromatiche dove tutto, dal basto ai conci del muro, è restituito con pari cura e amore. Nel Seicento non esiste nulla che ricordi così da vicino un pittore francese dell’Ottocento come Ingres. 

Il fatto è che Ingres a Capodimonte manca. E così Giorgione, Antonello da Messina o Piero della Francesca. Ma di tutti costoro ve ne sono i prodromi. Anche di Ingres. Anzi si dà un percorso segreto a Capodimonte che parte dall’«Annunciazione» di Scipione da Gaeta, tocca il «Presepe» del Sassoferrato e certi fortissimi napoletani di metà Seicento (Stanzione e Pacecco De Rosa), portando dritto a lui. Certo per far sentire dietro la porta Ingres bisogna soddisfare a precisi requisiti di stile: superfici smaltate, preziosismi di colore e lacche a profusione, un’attenzione affettuosa ai dettagli (una sedia, un rocco, un basto, la resa di una stoffa). Il problema è che noi Sassoferrato, preraffaellita piovuto due secoli prima dei preraffaelliti, lo abbiamo sempre schivato (con la v e non con la effe). Il gran teatro caravaggesco messo su da Longhi sarebbe stato precluso a chi sparge pagliuzze dorate nei veli, rimettendo in auge, in piena Controriforma, i trucchi del Perugino o del Ghirlandaio. Però Longhi, uno spaventosamente bravo come Sassoferrato, lo ammirava di nascosto, se ne comprò un dipinto (a riprova che i gusti del collezionista e gli schemi dello storico cozzavano dalle pareti di casa). 

A modo suo Sassoferrato lo avrà immaginato come un caravaggesco sedato per iniezioni di stile. Un purista, qualunque accezione si voglia dare a un termine un poco vacuo, ma che affratella maestri diversi: da un toscano romanizzato come Gentileschi al fiorentino Dolci, da Stanzione al Cozza al Guercino maturo. Federico Zeri che amava Sassoferrato lo battezzò «realista magico», come se parlasse, oltre che di Ingres, di un grande pittore di epoca fascista come Antonio Donghi. 

Comunque sia il Sassoferrato di Capodimonte sarebbe l’ennesimo capolavoro sconosciuto del museo se non fosse per Silvia Blasio che, nella voce ineccepibile sul pittore nel Dizionario Treccani, parla per il «Presepe», che considera opera del quarto decennio, di «rustico e immediato realismo». 

Per il resto le dritte migliori vengono dai denigratori. Il solito Longhi Sassoferrato lo accompagna nientemeno che a Giordano sotto la voce: «dipingere a la maniera di». Insomma fare il gioco dei mimi. Solo che i due partono da ingressi diversi. Per Sassoferrato travestirsi da Raffaello è questione di «applicazione», per Giordano di «facilità». Così dice Longhi nel 1943 mettendo insieme gli unici pittori che nessuno oserebbe avvicinare. Ma Longhi aveva colto il trasformismo di entrambi caricando le munizioni per la mostra caravaggesca di Milano che aprirà il decennio successivo. Una lunga compressione per decidere chi sarebbe stato presente alla festa della pittura moderna e chi no. Gli ultimi studi caravaggeschi del ’43 sono questo: una lista degli invitati, mentre si assoda la percezione del Seicento intorno a un unico filone, quello del realismo caravaggesco, aprendo le porte al neorealismo nel cinema e nei libri. Sassoferrato rimane fuori e non è un caso che gli studi migliori sul maestro non siano italiani salvo, vedi caso, Anna Banti, la signora Longhi cui spetta nel 1929, senza volere, la didascalia perfetta anche per il «Presepe» di Capodimonte: «servilismo per la venustà di una tecnica che lo soggiogò interamente». 

Sassoferrato neorealista? Semmai iperrealista. Stupefacente artigiano della qualità. Basta sagomare il basto su cui si accomoda Giuseppe (il più bel basto della pittura italiana). Caravaggio non avrebbe saputo, o voluto, renderlo così. Ma Gentileschi forse sì. Per questo Longhi rinfresca una parola a lui sgradita: «applicazione». In senso limitativo, naturalmente. Mentre a noi per la verità era stata venduta in senso opposto fin dai tempi della scuola («suo figlio è intelligente ma non si applica»; che è sempre meglio che «suo figlio si applica, ma non è intelligente»). In ogni caso, a che serve parlare di applicazione in un cenacolo di lazzari caravaggeschi, dove si dipinge alla prima e l’opera si costruisce nel suo farsi, buona la prima? 

Il punto è che Longhi oppone l’applicazione di Sassoferrato alla facilità di Giordano. Non ci volle altro perché il marchigiano precipitasse rovinosamente tra gli applicatori, i seduli, quelli «soggiogati dalla tecnica». A cominciare dal Dolci, che Giordano a Firenze umiliò mettendola beceramente sul piano dei quattrini («o Carlo ma se tu impieghi tanto tempo a condurre tue opere, tanto è lontano, che io pensi, che tu sia per mettere insieme i cento cinquanta mila scudi, che ha procacciati a me il mio pennello, che io credo al certo, che tu ti morrai di fame»). Chissà come avrebbe ridotto il Sassoferrato questo ariete napoletano. 

D’altronde il solo modo per mettere insieme Sassoferrato e Giordano senza confondere i sapori è salire a Capodimonte. Ci sono quelli che dipingono d’istinto. E quelli che impiegano una settimana a rendere i riflessi del lume su ogni nodo della cavezza di un asino. Si tratta di demoni diversi con cui venire a patti. L’applicazione e la facilità. I soldi verranno dopo, se verranno. Ma intanto quel basto di Capodimonte vale tutto il soffitto di Palazzo Medici. 

Giovanni Battista Salvi detto il Sassoferrato, «Presepio», Napoli, Real Bosco e Museo di Capodimonte

Stefano Causa, 25 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

Henry Beyle pubblica in edizione limitata immagini e parole di una conversazione «fuori dai denti» del 1980 dei due grandi compagni di strada. Ogni lettura è un furto con scasso ripetono; ogni quadro pure

Atteso che, col 31 dicembre, si chiuderà il primo quarto del primo secolo del nuovo millennio, ricordiamo La Folie Baudelaire di Roberto Calasso

Nel nuovo libro di Maria Grazia Gargiulo, arte e mercato rivivono dalle pagine dimenticate de «L’Artista moderno», embrione di una rivoluzione editoriale

Cinquanta capolavori e un grande conoscitore, Andrea De Marchi, per riscrivere la storia di un periodo fondamentale

 

Un presepe dolce e silenzioso nella Napoli vociante | Stefano Causa

Un presepe dolce e silenzioso nella Napoli vociante | Stefano Causa