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Nicola Davide Angerame
Leggi i suoi articoliPartiamo dai numeri. L’82ma Mostra del Cinema di Venezia, da poco conclusa, ha registrato 103.033 biglietti venduti e 13.934 accrediti ritirati, con un +9% rispetto al 2024. Non è solo statistica: è la conferma che il pubblico c’è, che la vitalità del cinema, quello d’autore e su grande schermo, resta contagiosa. Dentro questa cornice, la domanda è inevitabile: come sta quello italiano? La risposta, quest’anno, suona rassicurante: sta bene, sia dal punto di vista creativo che produttivo, dato che, in tutto, le produzioni italiane sfiorano quota sessanta titoli, incluse alcune serie, coproduzioni e classici. Alcuni dei film presentati al Lido sono già nelle sale italiane o stanno per arrivarvi.
Soltanto il concorso principale ha ospitato ben cinque film italiani, una presenza che non si vedeva da anni, e due premi di peso. «La grazia» di Paolo Sorrentino, film d’apertura, ha ribadito la capacità del regista napoletano di coniugare immaginario politico e tensione teologica con la sua consueta eleganza visiva, votata al barocco più chiaroscurale e caravaggesco. Toni Servillo, premiato con la prestigiosa Coppa Volpi, si muove in un paesaggio morale fatto di clemenza e potere, affiancato da Anna Ferzetti, in una interpretazione fatta di impegno, assenze e intensità. Il film ha ottenuto anche il Brian Award e il Premio Pasinetti, confermando Sorrentino come autore domestico e universale al tempo stesso, capace di fare una cinematografia ancorata al nostro immaginario, anche politico e religioso, e di renderlo comprensibile, o almeno degustabile, ai palati internazionali. Il Leone d’oro non sarebbe stato immeritato, ma ora lo sguardo corre agli Oscar.
Con «Sotto le nuvole», Gianfranco Rosi riporta il documentario al centro del concorso (lui stesso ne conta ben 15 in tutta la kermesse) e conquista il Premio Speciale della Giuria, dopo essere stato l'ultimo italiano a vincere nel 2013 il Leone d’oro con un altro documentario, «Sacro Gra». Adesso, sono Pompei, il Vesuvio e i Campi Flegrei ad averlo tenuto impegnato per gli scorsi due anni. Davanti alla sua cinepresa sono diventati una macchina del tempo in cui archeologi, devoti, marinai e cittadini popolano un atlante in bianco e nero che mette in dialogo rovine e presente, quotidiano e mito. È un’opera che conferma la forza di Rosi come narratore epico della realtà.
Sempre in concorso, Leonardo Di Costanzo con «Elisa» sceglie il registro del dramma psicologico, del dilemma morale e dell’impegno civile firmando un film tratto dalla vera storia di Stefania Albertani, condannata per l’omicidio della sorella e il tentato omicidio dei genitori. La bella prova di Barbara Ronchi è affiancata da quella altrettanto convincente e magnetica dell’attore e regista francese-marocchino Roschdy Zem, che «duetta» con la protagonista in sedute terapeutiche capaci di esaltare la forza salvifica della comprensione profonda. Una comprensione, quella delle radici del male, che manca ad una Valeria Golino impegnata in un cameo di grande forza: lei è una donna colpita da un lutto ostinato che non ha misura né riposo e rifiuta il perdono. Non si tratta di un film sul carcere, per quanto la realtà dell’Istituto Moncaldo, privo di sbarre e dentro un bosco accogliente dove le condannate lavorano e convivono prima di reinserirsi, meriterebbe un discorso a parte. Il film tratta del viaggio interiore in cui i personaggi sono chiamati ad affrontare ciascuno il proprio senso di colpa, ciascuno la possibilità di una redenzione o di un perdono che deve essere possibile per poter continuare a vivere. Di Costanzo indaga senza giudicare, mette a nudo la fragilità senza assolvere. È un cinema che non consola ma che sa trovare soluzioni e che interroga in profondità, restituendo al panorama cinematografico nostrano un linguaggio personale, umano. Molto umano.
Con il tanto atteso «Duse», Pietro Marcello usa un registro mitologico. Dopo «Martin Eden», sceglie di evocare, più che raccontare, la figura de «la divina» Eleonora. Valeria Bruni Tedeschi incarna una Duse febbrile e fragile, che resiste all’avanzata del fascismo e al declino personale, come se ogni ascesa sul palco potesse essere l’ultima. Non è un biopic, ma un ritratto politico e poetico insieme, in cui la memoria diventa materia viva.
Mito per mito, anche Franco Maresco dedica il suo film ad un grande artista del palcoscenico (e del cinema sperimentale): Carmelo Bene. Soltanto che poi lo «abbandona», accusando il produttore Andrea Occhipinti di «filmicidio». Il suo «Un film fatto per Bene», in concorso dopo la partecipazione alla 76ma edizione della Biennale cinematografica, nel 2019, con il documentario «La mafia non è più quella di una volta», nascerebbe come tributo speciale a quella «macchina attoriale» che è stato attore, regista e capocomico, e perfino direttore artistico di una Biennale Teatro nel 1988. La passione di Maresco per il grottesco sfiora qui la tragedia, il regista fa perdere le sue tracce, scompare. Sembra una versione aggiornata delle angosce registiche, e produttive, di «Otto e ½» (1963) di Federico Fellini. Partito come un progetto sull’attore artifex, il film si trasforma in un autoritratto spietato, un viaggio nell’impossibilità di fare un film, e di separare la vita e l’opera. Maresco costruisce la sua trappola con la consueta disperazione ironica, restituendoci un cinema che non somiglia a nulla se non a se stesso.
Accanto ai grandi del concorso, nuove voci hanno trovato spazio. In «Orizzonti», Carolina Cavalli con «Il rapimento di Arabella» ha acceso i riflettori su una generazione sospesa tra ansie e rimpianti. Holly, ventottenne interpretata da una intensa Benedetta Porcaroli, cui va il premio Orizzonti miglior attrice, crede di incontrare sé stessa bambina e decide di portarla via con sé. Una favola nera che sembra nascere dai forum online e dalle solitudini digitali. Sempre in «Orizzonti», «Un anno di scuola» di Laura Samani, delicato racconto di formazione, ha premiato la regista triestina con il riconoscimento per la Miglior regia under 40. Segno che la linea generazionale è tracciata.
Fuori concorso, Andrea Di Stefano con «Il Maestro» porta invece un racconto di formazione, con Pierfrancesco Favino nel ruolo di un ex campione fallito che diventa mentore imperfetto di una giovane promessa del tennis. Ambientato negli anni Ottanta, il film ha il sapore delle estati perdute tra bugie, competizioni e amicizie che segnano per sempre. Decisamente ibrido il cinema che esprime Virgilio Villoresi nel suo «Orfeo», film che esplora una delle figure centrali della mitologia greca attraverso la rilettura di Dino Buzzati, fondendo 16mm, animazione e illusione ottica in un omaggio visionario alla madre ballerina e alla natura più onirica del cinema.
Anche le Giornate degli Autori hanno avuto le loro rivelazioni tricolori, con due opere di forte impatto. «La gioia» di Nicolangelo Gelormini è ispirato al delitto di Gloria Rosboch e affronta la relazione proibita tra un adolescente e la sua insegnante. Senza cedere alla cronaca nera, il regista partenopeo cesella con accuratezza psicologica i due personaggi, interpretati da una azzimata e ardente Valeria Golino e da un seducente e camaleontico Saul Nanni. Tra corpi incandescenti e dormienti e con il sottofondo del dialetto piemontese, così divertente, i due incarnano solitudini che si attraggono e si distruggono, in un racconto di dolore e menzogna che ha il ritmo serrato di una tragedia greca.
Alla faida, in seno alla propria famiglia calabrese, Gianluca Matarrese dedica una docufiction tragica e ironica dal titolo «Il quieto vivere», in cui i rancori e i dispetti tra due cognate diventano il motore di un teatro spontaneo che coinvolge quel villaggio di poche anime dove tutti sono parenti, in un modo o nell’altro, e dove Matarrese sa mettere in scena un sorprendente omologo dell’antica tragedia greca con tanto di «coro» delle zie, che serviranno a trovare la morale, non scontata anzi intelligente, di un film coraggioso che ricorda l’audacia usata da Valeria Bruni Tedeschi regista nel suo avvincente autoritratto di famiglia intitolato «I villeggianti» e presentato Fuori Concorso a Venezia 75 nel 2018.
Nella sezione «Spotlight», che prende il posto di «Orizzonti Extra» e apre a regie più «artistiche», «Ammazzare stanca» di Daniele Vicari affronta la vera parabola di Antonio Zagari, figlio di boss della ’ndrangheta e killer che un giorno decide di non uccidere più. Gabriel Montesi e Vinicio Marchioni guidano un film che è più di un gangster movie: è la messa in scena della ribellione, del corpo come della coscienza, contro un destino scritto nel sangue da un padre padrone di rara intensità e forza. Vicari interroga la violenza senza compiacimenti, scavando nella possibilità fragile della redenzione.
Se la Mostra ufficiale è la vetrina, e le Giornate degli Autori il laboratorio delle visioni laterali, la Settimana Internazionale della Critica (Sic) resta il luogo della scommessa che spesso si traduce in scoperta. Quest’anno, giunta alla sua quarantesima edizione, la Sic ha ribadito la sua vocazione premiando per la Miglior produzione indipendente un film come «Agon» di Giulio Bertelli, opera prima sorprendente per radicalità e precisione. Tre atlete si preparano ai Giochi Olimpici immaginari di Ludoj 2024: i loro corpi diventano campi di tensione politica, sociale e tecnologica, evocando Giovanna d’Arco, Cleopatra e l’ufficiale russa Nadežda Durova, incarnazioni di un femminile che lotta, resiste e trasforma la disciplina in campo di battaglia simbolico.
Il quadro che emerge da Venezia 82 è quello di un cinema italiano che non teme le ombre: la Duse che resiste al fascismo, il Presidente che dubita, l’assassino che rinuncia alla pistola, la donna che affronta la colpa, la famiglia che si autodistrugge. Non ci sono consolazioni facili, ma tensioni e ambiguità che restituiscono verità e forza. Venezia 82 ha consegnato all’Italia la Coppa Volpi, il Premio Speciale della Giuria e diversi riconoscimenti collaterali confermando un anno di grazia.
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