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Nicola Davide Angerame
Leggi i suoi articoliVentidue minuti di applausi alla première. Ci sono film che arrivano al cinema come il risultato di un lungo lavoro, di un pensiero sedimentato negli anni, di un progetto coltivato pazientemente. The Voice of Hind Rajab della regista tunisina Kaouther Ben Hania, classe 1977, non appartiene a questa categoria: nasce invece dall’urgenza, dall’impossibilità di restare in silenzio di fronte a una voce che nessuno avrebbe dovuto sentire e che, una volta ascoltata, non può più essere dimenticata. È la voce di Hind Rajab, una bambina di sei anni intrappolata in un’auto a Gaza, che implora i soccorritori della Mezzaluna Rossa di salvarla mentre attorno a lei si consuma l’orrore. Kaouther Ben Hania ha colto questa voce come una chiamata ineludibile. Regista già affermata e riconosciuta per la sua capacità di coniugare sguardo politico e sensibilità umana, ha abbandonato il film a cui lavorava da dieci anni per inseguire quella traccia sonora che da sola conteneva un mondo. La genialità della sua scelta sta nell’aver compreso che non serviva ricostruire Gaza né cedere alla retorica del realismo: bastava mettere al centro quella registrazione e lasciare che l’eco di Hind si amplificasse nelle vite di chi cercò di salvarla.
Il film non è né un documentario né una finzione. È un’opera di confine che abita una terra cinematografica nuova, in cui l’attore non recita ma reagisce, in cui la macchina da presa non racconta ma si lascia attraversare da un dolore collettivo. Il lavoro produttivo è stato altrettanto straordinario: in meno di un anno, tra la scrittura, le riprese e il montaggio, l’urgenza ha plasmato un ritmo creativo feroce, che si riflette nella tensione palpabile di ogni inquadratura. Si avverte che il film è stato fatto non soltanto con la testa e con il mestiere, ma con il corpo e con il cuore.
La forza di The Voice of Hind Rajab è stata subito riconosciuta. Il 5 settembre il film ha ricevuto il Premio “Croce Rossa Italiana” alla Mostra di Venezia, nella sua prima edizione: un segnale inequivocabile che molti altri riconoscimenti seguiranno. Non potrebbe essere altrimenti per una regista che ha già inciso il proprio nome nella storia del cinema: Kaouther Ben Hania è infatti la prima regista tunisina ad essere candidata agli Oscar, e in tutte le sue opere ha sempre lottato per i diritti umani, delle donne come dei bambini, portando sullo schermo storie capaci di scuotere le coscienze e di aprire spazi di riflessione collettiva.
Guardare The Voice of Hind Rajab significa essere chiamati a partecipare a un’esperienza di empatia radicale. Non assistiamo a una narrazione, ma a un contagio emotivo che parte dalla regista, attraversa gli attori e arriva intatto allo spettatore. È questo che ne fa un’opera necessaria: non la denuncia in sé, ma la capacità di trasformare la pietà in partecipazione, l’orrore in memoria viva, l’impotenza in coscienza. La forza del film non sta solo nella storia che racconta, ma nella sua forma, nella sua stessa esistenza: un atto di resistenza estetica ed etica che resterà impresso come uno dei momenti più alti e più coraggiosi del cinema contemporaneo.
Incontrare Kaouther Ben Hania, a Venezia, è prima di tutto un incontro umano. Prima ancora che regista, si rivela una donna capace di trasformare l’indignazione in energia creativa. Le sue parole sono precise, nette, ma percorse da un’emozione che non lascia indifferenti.
Lei è arrivata a Venezia con un film che non era previsto nel suo percorso, nato da un’urgenza. Come è cominciato?
Quando ho sentito per la prima volta la voce di Hind Rajab, ho capito che nulla sarebbe stato più come prima. Era la registrazione di una bambina intrappolata in un’auto, che implorava aiuto. Una voce che era già diventata virale su internet, ma che per me ha avuto l’effetto di un terremoto. In quel momento stavo preparando un film a cui avevo lavorato per dieci anni. Ho abbandonato tutto. Ho contattato la Mezzaluna Rossa, ho chiesto l’audio completo, ho parlato con la madre di Hind e con chi aveva provato a salvarla. Mi sono immersa in quella vicenda fino a scrivere una sceneggiatura che non era più una scelta, ma un dovere.
Il film è basato su un documento reale. Perché non un documentario?
Non credo nei confini tra documentario e finzione. Sono categorie istituzionali, non realtà. Quando ascolti quella registrazione, hai tra le mani un documento. Ma ciò che io ho provato ascoltandolo era rabbia, dolore, impotenza. E ho pensato che il punto di vista giusto fosse quello dei soccorritori della Mezzaluna Rossa. Anche loro hanno vissuto la stessa impotenza, anche loro ascoltavano quella voce senza poter intervenire. Così è nato un film che non è né fiction né documentario, ma una forma capace di restituire quella condizione.
Gli attori hanno raccontato di non essersi mai sentiti veramente “attori”. Come ha guidato il lavoro sul set?
Ho deciso che nessuno avrebbe ascoltato la voce di Hind durante le prove. Dovevano sentirla solo sul set, per la prima volta. È stata un’esperienza devastante. Le lacrime che vedete non appartengono alla recitazione, ma alla realtà. Alcuni interpreti hanno rivissuto ricordi traumatici dell’infanzia, altri hanno avuto crisi di panico. Ma non era possibile recitare a distanza: quella voce ti attraversava e ti costringeva a reagire come essere umano, non come personaggio.
In un certo senso, il film dà voce a Gaza. Cosa significa per lei?
Sì, perché quella voce non appartiene solo a Hind. È la voce stessa di Gaza che chiede aiuto. È la voce di decine di migliaia di bambini che non hanno potuto sopravvivere. Il mio obiettivo era rompere l’indifferenza. Non siamo davanti a un “danno collaterale”, come spesso viene raccontato: sono esseri umani con diritto alla vita e alla dignità.
Nel film non compaiono giornalisti. Una scelta consapevole?
Sì. Perché nella realtà i soccorritori non pensavano a comunicare, ma a salvare una bambina. A un certo punto, nel film, qualcuno accenna all’idea di usare i social media. Ma il punto è che quella richiesta di aiuto non è stata raccolta da nessuno, neppure amplificata dai media. Era un grido nel vuoto, ed era giusto che anche il film lo restituisse così.
C’è chi accusa l’uso della voce autentica di Hind di essere una forma di sfruttamento del dolore. Cosa risponde?
Ho già sentito questo argomento, ed è sempre lo stesso: quando amplifichi la voce palestinese vieni accusato di strumentalizzazione. Ma il vero sfruttamento è il silenzio. Mostrare quella voce significa restituirle dignità, non profanarla. Ogni critica di questo tipo è un tentativo di zittire chi denuncia.
Il suo film porta un grido di giustizia. Ma che tipo di giustizia è possibile oggi?
La giustizia simbolica è importante, ma non basta. Fermare il genocidio non sarebbe comunque sufficiente: il male è già stato fatto. In un mondo ideale, vorrei giustizia per Hind e per ogni bambino ucciso. Ma la realtà è che siamo ancora lontani. Viviamo in un’anormalità che è diventata routine, e il cinema serve almeno a ricordarlo.
Molti grandi nomi del cinema internazionale hanno sostenuto il suo film. Come è accaduto?
Verso la fine del montaggio, con i miei produttori abbiamo deciso di mostrare il film ad alcune persone. Non immaginavo che artisti come Brad Pitt o Alfonso Cuarón avrebbero deciso di sostenerci. È stato un gesto di solidarietà autentica, non calcolato. Per me è stato sorprendente e commovente.
C’è un ricordo di Hind che porta con sé più di altri?
La madre mi ha raccontato che Hind amava il mare, amava giocare sulla spiaggia. È un’immagine che non mi lascia. Pensare a lei che rideva tra le onde, e alla stessa spiaggia trasformata nei progetti di colonizzazione turistica, restituisce tutta l’assurdità di questo mondo. Quella bambina amava la vita, eppure le è stata negata.
Cosa le resta, come donna e come artista, dopo questo film?
Ci sono giorni in cui mi chiedo a cosa serva fare cinema, se possa cambiare davvero qualcosa. Ma poi penso che l’unico modo per resistere all’amnesia sia proprio questo: raccontare. Il cinema non ferma le bombe, ma preserva la memoria. E senza memoria non ci sarà mai giustizia.
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