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Guillermo Del Toro in «Sangre del Toro» di Yves Montmayeur

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Guillermo Del Toro in «Sangre del Toro» di Yves Montmayeur

Guillermo del Toro dietro Guillermo Del Toro, all’82ma Mostra del Cinema di Venezia

Abbiamo intervistato Yves Montmayeur, regista del documentario «Sangre del Toro», dedicato al cineasta cult messicano, anch’egli in concorso nell’edizione da poco conclusa con «Frankenstein»

Nicola Davide Angerame

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«Frankenstein» di Guillermo Del Toro (Guadalajara, Messico, 1964), presentato in anteprima mondiale in concorso alla 82ma Mostra del Cinema di Venezia, è un film atteso da decenni, un’opera che il regista cult messicano ha inseguito e covato sin dall’infanzia, quando a sette anni scoprì i classici del regista James Whale e comprese che «l’horror gotico era diventato la mia religione e Boris Karloff il mio Messia». La pellicola, che il 22 ottobre arriverà nelle sale italiane e poi su Netflix, non è soltanto un adattamento fedele del romanzo di Mary Shelley, ma un ribaltamento di prospettiva: se il «mostro» è da sempre percepito come abiezione, qui diventa fragile depositario di verità, un’innocenza incandescente che brucia del fuoco rubato al cielo e lo restituisce al mondo come mistero. È un film di idee e di materia, scolpito nella luce, con scenografie che paiono cattedrali della psiche, costumi visionari e una musica, quella del premio Oscar Alexandre Desplat, che dà voce al silenzio della creatura.

Ma non si può guardare questo film senza accostarlo a un’altra opera, forse ancora più importante, per comprendere l’universo del regista: il documentario che Yves Montmayeur, testimone di lunga data delle vicende toriane, ha scritto e diretto e che sarà presto disponibile su Netflix. Presentato anch’esso al Lido, «Sangre del Toro» si dispiega come un filo di Arianna in un labirinto incantato, dove ogni immagine diventa segno, geroglifico, rivelazione. Attraverso questo percorso iniziatico, lo spettatore è condotto dai fasti barocchi di Guadalajara alle ombre enigmatiche di Parigi, seguendo le tracce di un Minotauro-cineasta che custodisce i segreti del proprio labirinto: Guillermo del Toro. Il film non è soltanto un omaggio, ma esplora la matrice intima, le ossessioni, gli enigmi e la ricerca del mostruoso che Del Toro vede come specchio dell’umano. «Sangre del Toro» offre una rara immersione nella psiche di un creatore per il quale il mostro incarna insieme il sacro, il sacrificio e la verità più profonda dell’arte. Ne osserva i gesti, le ossessioni, le fragilità, componendo un ritratto umano e creativo che dialoga con il Frankenstein cinematografico. Non solo un controcanto, ma un’opera autonoma, capace di restituire la complessità di un artista che da sempre dichiara: «Soltanto i mostri giocano a fare Dio e detengono la risposta a tutti i misteri». Abbiamo incontrato Yves Montmayeur a Venezia.

Il suo progetto su Guillermo del Toro è nato nel 1993.
All’epoca ero critico per la rivista «Le Cinéphage», dedicata al cinema di genere e all’avanguardia. Mi affidarono la sezione sulla «Semaine de la Critique» di Cannes. Riuscii a procurarmi una VHS del primo film di Del Toro selezionato in quella sezione. Non mi aspettavo un’opera simile dal Messico: un miscuglio di commedia, melodramma, vampirismo e poesia. C’era già il suo stile personale, quel sincretismo che avrebbe poi contraddistinto tutto il suo cinema. Così lo intervistai e Guillermo mi confidò che ero stato il primo giornalista a farlo. A Cannes nacque un rapporto confidenziale e di amicizia, che ha portato a questo film.

E dopo Cannes?
A Parigi gli feci scoprire luoghi insoliti, come la Scuola veterinaria di Maisons-Alfort, con la collezione di malformazioni e gli «écorché» di Honoré Fragonard (cugino del noto pittore rococò, Ndr). Ricordo il suo choc: rimase muto e poi mi disse che ciò che aveva visto avrebbe influenzato il suo lavoro futuro. Era come se avesse trovato una conferma materiale di ciò che aveva già intuito da bambino: che il corpo umano, scomposto e deformato, non è mai soltanto anatomia ma è anche racconto, allegoria e simbolo.

Quei riferimenti si ritrovano nei suoi film?
Sì, già in «La spina del diavolo», del 2001, e fino a questo suo «Frankenstein», dove il busto del cadavere presentato nella scena degli accademici cita direttamente Fragonard. Guillermo è affascinato dall’anatomia, dal corpo, e questo attraversa tutta la sua opera, fino a diventare uno dei suoi linguaggi più potenti. L’organico e l’inorganico, la carne e il metallo, la vita e la morte non sono mai contrapposti, ma dialogano costantemente, come in un’unica grande metamorfosi.

Nel documentario lei mostra il Del Toro collezionista.
A Guadalajara presentò una mostra con centinaia di oggetti che spiegavano le sue ossessioni e come li riutilizzava nei film. Nel documentario ho scelto una struttura a labirinto, figura che lui predilige e che rimanda a «Il labirinto del Fauno» (2006). Entrare nel mondo di Del Toro significa smarrirsi e ritrovarsi, come nei labirinti mitologici: ogni svolta rivela un mostro, un ricordo, un segreto.

Lei ha integrato anche altre influenze, come la mostra sui fantasmi giapponesi al museo parigino Quai Branly.
Guillermo è appassionato di Giappone, della sua mitologia e del suo cinema. Usa il cinema come altri userebbero pittura o letteratura: la sua opera oltrepassa i confini della settima arte. È un regista che pensa per immagini archetipiche e simboliche, e che nel contempo non perde mai il contatto con l’emozione immediata, con lo stupore infantile.

Ormai ha un ruolo che va oltre quello del semplice regista.
È diventato un «passeur», un ambasciatore del cinema, come Tarantino a suo tempo. Attira nuove generazioni a frequentare il grande schermo e lo fa con naturalezza, senza mai separare il popolare dal colto. Per questo oggi Del Toro non è soltanto un autore: è una figura che incarna la possibilità stessa del cinema come linguaggio universale.

Ma chi è Guillermo del Toro, come persona?
Ha conservato un cuore di bambino. Tutto il suo cinema parte dall’infanzia e dai suoi traumi. Non giudica i mostri: sono più vittime che incarnazioni del male. Nel suo cinema, spesso, il mostro è più umano dell’uomo. E questo, solo i bambini sanno percepirlo.

Che cosa ha scoperto di lui lavorando a questo documentario?
Quando filmo un artista è perché mi ritrovo in lui. Guillermo evoca il regista David Cronenberg, la sua ammirazione per «Videodrome» (1983) e per «La mosca» (1986). Io avrei invece adorato girare «Il labirinto del fauno». Sono giochi di rispecchiamento che creano vicinanza, affetto e ammirazione.

Nel film viene fuori anche quella sua identità così profondamente messicana.
Che spesso si dimentica. Il sincretismo messicano unisce cattolicesimo ed eredità precolombiana: il culto del sangue, i Cristi sanguinanti, la continuità tra vita e morte; e per Guillermo la morte non è fine, ma trasformazione. Anche per questo si sente vicino al Giappone, dove la morte è parte del ciclo vitale.

La violenza messicana ha forgiato il suo cinema?
Guillermo dice nel film: «Aver vissuto circondato dalla violenza mi ha obbligato a restare nel disagio. E questo disagio è una fortuna, perché mi spinge a creare». La sua opera porta quell’intensità, quella necessità; è come se la crudeltà del reale fosse diventata il carburante della sua immaginazione.

Parliamo del suo processo creativo.
Non è solo ispirazione, ma duro lavoro; è un’architettura mentale che associa immagini e riferimenti come un pittore o un musicista. Nei suoi quaderni annota ossessivamente dettagli, costumi, scenografie. Non c’è separazione tra vita, memoria, cultura e cinema. Tutto circola, tutto si mescola, ed è questo a renderlo unico.

Soffre, e gode, di una forma di bulimia creativa.
Sì, è come un orco, un vampiro: deve nutrirsi di energia per ricrearla. «Sangre del Toro» allude a questo: deve nutrirsi continuamente per reinventare. È una ricerca permanente, uno stupore che non si esaurisce mai.

Da dove viene questa energia inesauribile?
Ciò che mi sorprende è che non dorme mai. Lavora ai suoi progetti, si nutre del lavoro degli altri ma è anche generosissimo. Anche un giovane grafico alle prime armi può ricevere una sua risposta. È un tratto che lo distingue: l’arte come dialogo, mai come monologo. In lui, l’immaginazione non è una torre d’avorio, ma una piazza, un luogo aperto in cui tutti possono entrare.

Ha anche un museo personale a Los Angeles, la celebre Bleak House.
È il prolungamento della sua immaginazione, una dimora per i suoi fantasmi. Ogni stanza è un set, ogni scaffale un archivio vivente di paure e desideri. È il suo modo di continuare a vivere dentro il cinema anche quando non è sul set.

Grazie al suo film, Del Toro è tornato nei luoghi dell’infanzia, che non rivedeva dal rapimento del padre nel 1997.
È stato un viaggio rocambolesco, quello a Guadalajara. Avevamo concordato mezza giornata di riprese insieme e invece alle sette del mattino vedo arrivare due auto con vetri oscurati, in stile da sicari. Sembrava la scena di un film, mi hanno quasi rapito ma dentro c’era Guillermo che rideva: era il suo modo teatrale di organizzare la giornata, vedere i «suoi luoghi» dall’auto in corsa. Ma non potevamo rischiare. E poi Guillermo è così: una messa in scena permanente. Tutto diventa cinema intorno a lui, anche gli imprevisti. Il suo modo di vivere è già una forma d’arte: una continua invenzione, una continua narrazione.

Nicola Davide Angerame, 15 settembre 2025 | © Riproduzione riservata

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