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Il deposito dell’Ebaf già danneggiato

Photo: Fadel Al Utol

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Il deposito dell’Ebaf già danneggiato

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Gaza: migliaia di reperti evacuati prima di un attacco israeliano

Giovedì 11 settembre un team congiunto di archeologi, diplomatici e operatori umanitari, previo avviso delle forze israeliane, ha provveduto a spostare gli oggetti dal deposito della Scuola Biblica e Archeologica Francese di Gerusalemme. Solo il 70% è stato salvato

L’11 settembre si è compiuta a Gaza un’operazione di salvataggio che, in poche ore e in condizioni estreme, ha riguardato migliaia di reperti archeologici custoditi nel deposito della Scuola Biblica e Archeologica Francese di Gerusalemme (Ebaf). Situato al piano terra della torre residenziale Al-Kawthar, il deposito avrebbe rischiato di venire colpito durante l’imminente attacco israeliano rivolto ai grattacieli di Gaza City, dai quali ai residenti era stato intimato di evacuare.

La notizia è stata diffusa il 15 settembre dal Cogat-Coordinamento delle attività governative nei territori israeliano, secondo il quale i reperti appartenevano alla comunità cristiana di Gaza. Il Cogat descriveva l’operazione come «parte dello sforzo per consentire il movimento dei residenti e delle organizzazioni internazionali nella Striscia di Gaza meridionale per la loro protezione». L’Ong israeliana Emek Shaveh, che lavora per prevenire la politicizzazione dell’archeologia nel contesto del conflitto israelo-palestinese, ha condannato l’annuncio del Cogat: «Dall’inizio della guerra, Israele ha danneggiato o distrutto centinaia di siti culturali e manufatti protetti. Il tentativo di presentare l’attuale evacuazione come se lo Stato di Israele stesse investendo risorse per prevenire tali danni è assurdo e costituisce una beffa al diritto internazionale».

L’intervento dell’Ebaf è stato reso possibile grazie al coinvolgimento di una rete di archeologi, diplomatici e operatori umanitari, dal Mah-Musée d’art et d’histoire di Ginevra, dall’Unesco, dal Patriarcato latino di Gerusalemme e dal Governo francese, ai quali è stato concesso un breve lasso di tempo dalle forze israeliane per agire. «Il processo è iniziato giovedì mattina alle 7 e si è concluso nel pomeriggio a causa della mancanza di garanzie di sicurezza per le squadre sul posto, ha affermato la curatrice del museo svizzero Béatrice Blandin, che ha aggiunto: «Il nostro obiettivo era quello di fare pressione sugli archeologi israeliani e informare le autorità politiche svizzere (il governo svizzero, l'ambasciata svizzera a Tel Aviv) nonché istituzioni come Blue Shield International, l’Unesco, la Fondazione Aliph e gli archeologi su ciò che stava accadendo».

Il Mah di Ginevra ha un legame con Gaza che risale al 2007, quando organizzò la mostra «Gaza, al crocevia delle civiltà» con oltre 500 reperti provenienti dall’enclave, rimasti in Svizzera a causa del blocco israeliano. Alcuni di questi pezzi sono stati recentemente esposti (dal 5 ottobre 2024 al 9 febbraio 2025) nella mostra «Patrimonio in pericolo» sempre al Mah di Ginevra, evento dedicato ai 70 anni della Convenzione dell’Aia, al fianco di oggetti provenienti da Sudan, Siria e Libia.

Circa il 70% dei 180 metri cubi di reperti provenienti dai principali siti archeologici del luogo, come il monastero bizantino di Sant’Ilarione, sito Unesco dal 2023, è stato messo in sicurezza altrove. Il restante 30%, composto soprattutto da ceramiche e materiali lapidei, è purtroppo andato perduto nell’attacco successivo.

«Abbiamo salvato gran parte dei reperti, ma in un’operazione di salvataggio si perdono sempre delle cose e si devono sempre affrontare scelte dolorose», ha detto René Elter, archeologo affiliato all’Ebaf e coordinatore scientifico dell’Ong francese Première Urgence Internationale di stanza nella Striscia dal 2009. La medesima reazione si legge nelle parole dell’archeologo del Mah, Fadel Al-Utol, che ha lavorato a lungo a Gaza e conosceva nei dettagli il deposito: «Mi sento come se avessi perso uno dei miei figli».

L’evacuazione è avvenuta tra molteplici difficoltà, come l’assenza di mezzi adeguati, la mancanza di imballaggi idonei e la sicurezza precaria per i circa 20 volontari coinvolti.

«Ai sensi della Convenzione dell’Aia del 1954, per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, il deposito archeologico, come molti altri monumenti e siti, non avrebbe dovuto essere colpito», ha evidenziato Blandin.

«Molti oggetti sono stati rotti o persi, ma sono stati fotografati o disegnati, quindi le informazioni scientifiche sono state preservate, ricorda Elter. Forse questa sarà l’unica traccia che rimarrà dell'archeologia di Gaza: nei libri, nelle pubblicazioni, nelle biblioteche».

Redazione, 18 settembre 2025 | © Riproduzione riservata

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