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Elisa Montessori. © Simon d’Exéa

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Elisa Montessori. © Simon d’Exéa

Elisa Montessori: «Temo la perfezione perché è la fine»

Un’intervista all’artista di Alessandra Mammì. «Il cambiamento ci fa paura, ma i primi a cambiare dobbiamo essere noi. Con la sua metamorfosi Dafne evitò uno stupro»

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Alessandra Mammì

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A metà degli anni Trenta Elisa Montessori viveva a Genova, frequentava le elementari e andava a scuola a piedi, da sola. Ogni giorno, lungo la strada in cima a una collina, vedeva tre alberi. E fu così che cominciò a disegnare ossessivamente tre linee. Agli adulti che le chiedevano perché disegnasse sempre tre linee, lei rispondeva convinta: «Non sono tre linee, sono tre alberi». Ne è ancora convinta oggi che di anni ne ha 92 e racconta questa storia come esperienza fondamentale della sua vita di donna e di artista, da allora in perenne equilibrio e funambolico esercizio tra scrittura e disegno, tra segno e pittura, tra immagine e parola, tra pensiero e forma in una pratica quotidiana che la spinge a rifiutarsi di scegliere di appartenere a un solo linguaggio, di prendere posizione per l’una o l’altra cosa.

«Ogni cosa è un’altra», ci dice il titolo di una sua recente mostra alla galleria Monitor di Roma e di un bel documentario che l’accompagna. Più che un titolo, un viatico che l’ha guidata in un percorso decisamente eccentrico eppure ancorato ai mutamenti dei linguaggi e delle ricerche che l’hanno scortata nel tempo. Fin da quando, negli anni Cinquanta, arrivò a Roma per diventare assistente di Mirko Basaldella, con il quale ebbe anche una forte relazione sentimentale.

Fu osteggiata invece dal fratello Afro che non sopportava la sua vocazione di pittrice. «La pittura non va bene per una donna», le diceva, «perché non ti dedichi alla scenografia, all’oreficeria o al massimo alla ceramica?». Lei testarda continuava a fare quadri sebbene i mercanti le consigliassero di firmare solo con il cognome: «Per esser brava, sei brava, ma se i collezionisti capiscono che sei una donna non vendi più niente. Firma solo Montessori o al massimo aggiungi una “e” puntata». Lei firmava per esteso e in piena guerra fra figurativi e astratti si rifiutava di prender partito, dipingendo immagini che arrivano da entrambe le posizioni.

È così che ha attraversato tutta la seconda metà del ’900. Due matrimoni (il primo con l’ingegnere italo-cinese Mario Tchou, pioniere informatico e mente dell’Olivetti; il secondo con l’architetto Costantino Dardi), tre figlie e lei sempre vigile e autonoma, curiosa di ogni linguaggio, vicina ma mai dipendente dal succedersi delle avanguardie. Informale, Pop art, Arte povera, Minimalismo, Transavanguardia le scorrevano accanto mentre il suo universo visivo esplorava letteratura, scienze umane e naturali, filosofia, poesia, matematica, arti e pensieri d’Oriente.

Un universo visivo che trova sempre di più il suo spazio sulla carta, come supporto di quel disegnare in trasformazione continua dove «una cosa s’inanella a un’altra in una catena di associazioni transitorie come le cellule che vibrano nel nostro corpo». Ed è forse questa idea fluida del vivere e del visibile che rende oggi queste tracce di esistenza fissate sui fogli, rotoli, veline, libri grandi e piccoli un lavoro in piena sintonia con la sensibilità contemporanea. Anche se lei a questa osservazione risponde ridendo: «Contemporanea io? A 92 anni mi sento più temporanea».

Cominciamo dagli attuali impegni: due mostre negli Istituti di Cultura italiani di Varsavia e di Cracovia, una sala nella collettiva «El Dorado» al Museo Pietro Canonica in Villa Borghese e l’invito del direttore Andrea Viliani a celebrare con una personale la nuova apertura delle collezioni asiatiche del Museo delle Civiltà dell’Eur. Non l’affatica tutto questo?
Mai. Dipingere e disegnare per me è come respirare. È pratica quotidiana. Ho appena finito uno dei miei grandi libri, s’intitola «Tutti i giorni»: una pagina al giorno, ogni pagina diversa dall’altra, perché ogni giorno il sole nasce in un modo diverso e dobbiamo essere pronti a mutare. Non l’ho detto io: è Eraclito. Sarebbe importante rileggere i presocratici per superare parecchi dei nostri problemi.

Perché proprio i presocratici?
Perché spiegano la necessità di andare alla radice delle cose, perché parlano della materia che plasma l’universo, l’anima, la natura, la conoscenza e infine perché credo che, se si vuole garantire un futuro alla razza umana, bisogna tornare a queste filosofie non solo mentali ma organiche. Uno sguardo all’indietro per capire l’oggi. Una contrazione del tempo dove l’inizio non coincide con il passato ma con il presente. Che il tempo si possa contrarre lo avevamo già capito grazie a Einstein ma ora lo tocchiamo in modo quasi tattile, quindi tornando a un tempo lontanissimo capiamo cose attuali. L’arte questo lo ha sempre saputo, basti pensare agli archetipi aria-acqua-terra-fuoco ai quali l’Arte povera ha attinto a piene mani. L’arte riesce a intuire verità che poi la scienza finisce per confermare.

Sta parlando anche della sua personale esperienza di artista?
Di artista e di donna. Prendiamo il mito di Dafne che nel mio lavoro è ricorrente (una versione del 1977 è conservata nella collezione «Autoritratti» degli Uffizi, Ndr). Dafne è il mito di quella metamorfosi che nega e supera la separazione fra mondo vegetale, animale e minerale. Rigida catalogazione che ormai anche la scienza non riconosce più. Ho sempre riconosciuto nelle linee della mano le stesse venature che vedo in una foglia, molto prima che il Dna ne rivelasse le parentele. Ma in quanto donna vedo in Dafne l’immagine della trasformazione, del corpo che muta, quella metamorfosi che trova la sua epifania nella maternità come sproporzione fra il nostro corpo e un altro corpo. Deformazione organica, estetica, strutturale necessaria a sostenere un peso che cresce al nostro interno.

Dunque la trasformazione è la vita stessa.
Per questo la metamorfosi è al centro dell’immaginario contemporaneo. Si ricorre al mito perché avvertiamo nel presente un cambiamento così celere e incontrollabile che ci spaventa: dai confini nazionali sempre più esili al clima sempre più malato, dalla fluttuazione dell’economia all’instabilità delle classi sociali. L’unica salvezza è nella trasformazione. E a cambiare dobbiamo essere noi.

Dafne sfuggiva a uno stupro e sceglierla come bandiera negli anni Settanta era anche una dichiarazione di femminismo...
Molte cose sono cambiate, ma quelle vicende hanno inciso profondamente in me e per molto tempo ho riempito lo studio di opere che non firmavo perché la mia firma non mi sembrava importante. La violenza viene assorbita e la difesa spesso è l’autolesionismo, non la lotta. E poi, molte donne della mia generazione hanno lottato usando sistemi che non mi convincevano. A volte per lottare bisogna diventare un personaggio, mettere al primo posto non l’opera, ma la propria immagine. Esempio macroscopico è Frida Kahlo, che francamente non ritengo molto brava, ma che ha saputo costruire sulle sue caratteristiche fisiche, compresa l’infermità, una tale aggressività simbolica che ha pervaso tutto. È diventata un orecchino, un calendario, una maglietta. Un percorso rischioso che incombe oggi su molte artiste, anche della mia generazione, per colpa della moda.

A che cosa si riferisce esattamente?
Alle case di moda che puntano sull’arte e la trasformano. Chiedono disegni ad artisti e soprattutto artiste, per farne una tenda, la scenografia di una sfilata, una borsetta. Trasformano l’opera in un oggetto di consumo. Ma se si trasforma l’opera in una tenda di bell’effetto all’interno di un défilé a esporre è la casa di moda non l’artista. Faccio un esempio: il lavoro di Tomaso Binga che per me va ricondotto a molte cose, dal Lettrismo al dualismo della personalità, e invece ingigantito è diventato scenografia in un contesto in cui tutta la complessità del pensiero spariva (prêt-à-porter Autunno-Inverno Dior, Parigi 2019, Ndr). Queste operazioni vengono fatte soprattutto sulle donne che sono le più fragili, e si fa passare il tutto come una valorizzazione là dove invece io vedo una strumentalizzazione.

O forse è il prezzo del successo?
Se questo è il successo, io credo nell’insuccesso. Non vorrei che molte donne si arrendessero a un uso consumistico dell’arte. È un rischio che ha penalizzato anche gli uomini, penso a Giuseppe Capogrossi che ho conosciuto bene. Era un ottimo pittore figurativo, poi, sedotto dalla ventata innovativa dell’Informale, trovò la sua cifra ed ebbe un successo di mercato che lo costrinse però a dipingere forchette tutta la vita. Il mercato detesta i cambiamenti, cosa su cui sono in completo disaccordo: se la vita cambia ogni giorno, come può la nostra opera restare sempre uguale?

La sua infatti non lo è...
Una volta Emilio Vedova mi disse: «Ogni pittore ha il suo segno, il tuo è il vento». Il vento che cambia. Nel mio lavoro le cose s’inanellano e cambiano in un’infinita catena di associazioni, perché quello che interessa non è la cosa in sé ma il rapporto fra le cose. Parto sempre da due punti per sfuggire alla centralità e alla simmetria, cerco il movimento come nel Barocco e aspiro a una sorta di segretezza che costringa a fare domande. Noi guardiamo le cose perché ci pongano delle domande, e se il pensiero antico ci appare contemporaneo è proprio perché quelle domande ancora reggono. Se non nasce il dubbio, se non c’è spirito critico, tutto si azzera e nulla resta. 

Ma non crede che il mondo stia invece andando in un tutt’altra direzione? Pensi all’Intelligenza Artificiale...
Io non ho alcun timore dell’Intelligenza Artificiale, dipende da come la si usa. Impariamo moltissimo dalle macchine e molto poco da noi stessi, basti pensare che i primi transistor ci hanno rivelato che anche il nostro cervello funziona grazie all’elettricità: se non avessimo sperimentato l’intelligenza su una macchina, non l’avremmo capito. E poi per quanto potente possa essere una realtà parallela, il pensiero umano resta fondamentale, perché il nostro essere fisico è fortissimo e il desiderio nasce dall’esperienza totale del nostro corpo. Non si può smaterializzare questa energia. Quindi dobbiamo combattere le ataviche paure. Io mi affido alla conoscenza, alla fiducia nella scienza, mi nutro di letteratura e trovo nella poesia scintille che diventano rivelazioni.

Che cosa la spaventa allora?
La perfezione. Ho l’esigenza dell’incompiutezza, l’errore che può diventare attivo, la macchia fortuita, la piega del foglio. Un aneddoto cinese racconta di un pittore calligrafo, il più bravo di tutti, che viene chiamato a corte. Per anni lavora con quella tensione che lega il segno all’istante. E un giorno accade qualcosa di straordinario: il segno perfetto. Il principe è stupefatto, entusiasta: «Questa è la cosa più bella che un essere umano possa mai fare», gli dice. Ma il pittore piange perché sa che da quel momento il suo lavoro è finito. La finitezza per l’artista è la morte.
 

Elisa Montessori. © Simon d’Exéa

Alessandra Mammì, 16 novembre 2023 | © Riproduzione riservata

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