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Sidival FIla

Courtesy of Fondazione Filantropica Sidival Fila

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Sidival FIla

Courtesy of Fondazione Filantropica Sidival Fila

Sidival Fila: «Io, Cattelan e Dio»

Secondo il frate francescano, artista che fa pensare a Burri ma ama Morandi, «oggi la funzione dell’arte sacra è mettere in condizione le persone di entrare nel mistero. C’è una differenza fra arte sacra e sacralità dell’arte. Quest’ultima si trova anche in artisti laici»

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Alessandra Mammì

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Persona eccentrica Sidival Fila: artista, frate francescano, uomo dalle tante vite che ha come luogo di nascita una cittadina del Brasile e come luogo di lavoro le ex soffitte dell’antico Convento di San Bonaventura in cima alla via Sacra a Roma. Un luogo magico arrampicato sul colle Palatino da cui lanciare lo sguardo a 360 gradi sulla città: il Colosseo, il Circo Massimo, i Palazzi imperiali, i Fori, il Celio, il Campidoglio e oltre... È lì che frate Sidival vive, lavora e prega.

Eccentrico, ma di certo non eretico. Semmai profetico (come indicano queste pagine): uomo di fede intento a tradurre il suo credo in una produzione di opere che parlano un linguaggio umile e complesso, artigianale e concettuale, astratto e figurativo. Il laboratorio di tanta sperimentazione è in una grande stanza che a prima vista sembra una sartoria: rotoli di tessuti, forbici, aghi e tutt’intorno immense o minime tele, dove forme e colori affiorano dall’ordito portato a nudo oppure dai collage di scampoli di broccati o antichi frammenti di ricamo insieme a brandelli di iuta o vecchi lini grezzi. Stoffe destinate al macero e ora riscattate e resuscitate dalla pazienza di questo frate operoso e artista visionario. Che non viene al mondo con la predisposizione di diventare frate o artista.

Nato nel 1962 nello Stato del Paranà, eredita da un nonno scultore e decoratore di chiese una passione che lo aiuta a lasciare il Brasile per arrivare a Roma a studiare cultura classica e grande pittura. Quello che qui, invece, lo travolge è la vocazione religiosa, che lo spinge a prendere gli ordini come frate minore francescano, abbracciare esclusivamente il sacerdozio e dimenticare l’arte per ben 18 anni. È a poco a poco, attraverso piccoli lavori artigianali e di restauro, che Sidival torna a praticare la pittura, a sperimentare, cercare di dar forma a un’esperienza spirituale ormai adulta e fortemente strutturata.

Da qui nasce un linguaggio in cui iconografie consolidate vengono riviste in forme inedite per l’arte sacra ma in stretto dialogo, invece, con la ricerca moderna dall’Astrattismo all’Informale, all’Arte Povera. A giudicare dall’interesse che il suo lavoro sta suscitando sia nel mondo religioso sia in quello laico, sembra che la scommessa di ristabilire un ponte fra Chiesa e arte contemporanea sia vinta. Basti citare gli ultimi progetti di Sidival Fila: dal raffinato intervento del 2023 che si inserisce tra gli antichi e preziosi volumi della Biblioteca Apostolica Vaticana all’installazione immersiva dell’Ospedale Civile di Venezia nel 2024, fino alle due mostre in arrivo al Centre Pompidou di Metz.

Una è una commissione per la collettiva «Copistes», che inaugurerà il 13 giugno, nella quale celebri artisti sono invitati a immaginare una «copia» di un’opera storica dalle collezioni del Louvre. La seconda, più sorprendente, è la richiesta di «battezzare», il 7 maggio, il lancio del programma della Wrong Gallery: progetto ideato nel 2005 a New York da Maurizio Cattelan e ora riadattato a Metz per una rassegna abbecedario, divisa in 27 sezioni (una per ogni lettera dell’alfabeto) dove Sidival Fila, primo invitato, dialogherà con la lettera A e il tema «Aria di famiglia». Questa ben strana famiglia dell’arte è capace di riunire un frate artista e l’irriverente, provocatorio e geniale Cattelan.

Padre Fila, non l’ha stupita l’invito di Cattelan a inaugurare la sua Wrong Gallery a Metz? È un artista che sembrerebbe molto lontano dal suo ambito di ricerca...

Apprezzo il lavoro di Cattelan e alcune sue opere mi hanno molto colpito. Mi piace la sua capacità di gestire i simboli. L’Hitler che prega, ad esempio, rimpicciolito e reso ridicolo dal costume tirolese («Him», 2001, Ndr), è una visione che esorcizza il Male e lo mostra inginocchiato di fronte al vuoto di un muro bianco. Perché il diavolo, a differenza del credente, non s’inginocchia di sua volontà, viene costretto da Dio. Nel Padiglione Vaticano a Venezia dello scorso anno, il suo grande murale con i piedi sporchi che ricordano sia Mantegna sia Caravaggio ci parlava di pellegrinaggi, come quelli che hanno portato fin lì, tra le fatiche di una vita, le detenute del carcere della Giudecca. E persino il Papa colpito dal meteorite («La nona ora», 1999, Ndr) è un paradosso che insegna come non può esserci totale dominio sulla realtà, neanche per chi crede nella provvidenza. Trovo insomma che nelle provocazioni di Cattelan ci sia sempre ricerca e spiritualità.

Quindi lo avvicina all’arte sacra?

C’è una differenza fra arte sacra e sacralità dell’arte. Quest’ultima si trova anche in artisti laici. L’Apocalisse di Jannis Kounellis («Senza Titolo-Svelamento», 2012, Ndr) alla Galleria San Fedele è una visione del Terribile: una croce chiusa in un sacco e appesa a un’asta di ferro. C’è un richiamo alla Crocefissione, ma il simbolo è sottratto allo sguardo, come fosse un cadavere. Un’opera così non può che suscitare una profonda emozione.  

Più di molte immagini figurative spesso mediocri che decorano oggi le chiese moderne. Non trova?

L’arte sacra nasce come linguaggio figurativo perché le persone che non avevano accesso alla parola scritta potessero attingere al contenuto. Poi c’è stato un passaggio che ha cercato, attraverso la stilizzazione, di rendere più moderna l’immagine e questo non sempre è riuscito, soprattutto perché l’arte sacra non può essere finalizzata alla liturgia. L’arte, che è l’inutile per eccellenza, può solo predisporre alla liturgia. Ma se l’immagine invece diventa funzionale rischia di fare l’effetto di una distrazione. È come la musica: se si chiudono gli occhi, un brano classico induce introspezione, ma una samba, invece, fa muovere il corpo. Il contenuto era necessario in un mondo di analfabeti, oggi la funzione dell’arte sacra è mettere in condizione le persone di entrare nel mistero.   

Non a caso le sue opere, anche quando rimandano a un’iconografia, la restituiscono in forme originali. Come la Crocefissione che è nel suo studio: la croce è assente e un Cristo ligneo del XVIII secolo, sospeso su una tela, è avvolto in un lino bianco come quello di una culla. Sembra di essere di fronte più a una nascita che a una morte... 

Volevo che si creasse un senso di sospensione. Alla morte di Cristo il tempo si è fermato e qui il suo corpo è in aria. La morte si rovescia nella vita perché questa non è un fine ma un inizio. Non c’è il sangue, non c’è la tragedia in terra, c’è una sublimazione. Mi sono chiesto: «Come tradurre questo artisticamente?». Ed ecco che la croce di legno scompare, ne rimane traccia solo nella postura del corpo tenuta dalle cuciture dei fili che lo sorreggono e lo rendono leggerissimo. Quell’immagine non rappresenta più un Cristo morto, ma la sintesi dell’evento: morte, resurrezione, ascensione.

Nonostante il suo lavoro sia spesso avvicinato ai «Sacchi» di Burri o alle tele tagliate di Fontana, lei sembra più vicino alle poetiche della Metafisica che all’Informale. 

Io uso questa allegoria: la materia nell’Informale è adolescente, brutale, alla ricerca di un suo ruolo da protagonista. Io punto a un’idea di un Informale adulto, in cui la materia è serena, risolta, non è conflittuale. Non deve urlare per trovare il suo spazio. Sa parlare e mostrarsi senza tensione. Io cerco l’epifania della materia: non la utilizzo, la riscatto. Sono spesso messo a confronto con Burri o con Fontana e non nego che ci sia una sensibilità che mi avvicina a loro, una sorta di dialogo. Ma il maestro per eccellenza per me è Giorgio Morandi. È il pittore che mi educa al colore, alla composizione, alla spiritualità della materia. Ha un senso metafisico dello sguardo. Come persona poi appare irraggiungibile. Un vero monaco, rappresenta un’integrità umana che fa quasi paura. E in verità ho incontrato il lavoro di Burri dopo che avevo già impostato il mio. Lo spazio del tessuto nelle mie opere è diverso dal suo: è spazio e non spazio. Non è dipinto, non è tela, è altro. Adrian Ghenie (pittore romeno contemporaneo, Ndr) mi disse una volta che io lavoro sul tempo. Penso che abbia ragione.

Non è un’affermazione che l’avvicina all’Arte concettuale?

Per me «Il» concetto viene dopo l’opera. Mentre l’Arte concettuale è assolutizzazione del concetto, io non posso sacrificare l’oggetto per il concetto. A parte questo, sì: il mio lavoro è concettuale. 

Ma anche molto artigianale. Lei non ha una bottega, non ha assistenti, fa tutto questo lavoro manuale da solo, sembra una pratica devozionale...

Io mi sento un artista gestuale a cui l’impegno fisico e manuale non pesa, ma è vissuto come un atteggiamento positivo verso il reale. Sono qui per costruire e non per distruggere, per legare, non per dividere e vedo il fare come cocreatore della realtà. La manualità è un segno importante per trasformare sé stesso in gesto artistico. Per questo lavoro in solitudine. A parte quando ho bisogno di aiuto per montare grandi telai. 

Che effetto le fa tutta l’attenzione che oggi il suo lavoro riceve anche dal mercato? Come si relaziona al mondo delle aste e delle fiere?

Quello che mi salva nel non cadere in questa seduzione è che non ne traggo profitto. Sono nel mercato perché non sono estraneo al mondo, ma nel 2021, con la donazione di circa 100 mie opere, ho fatto nascere la Fondazione Filantropica Sidival Fila che finanzia progetti nei posti più critici del mondo per promuovere l’istruzione e l’inserimento di bambini e giovani che rischiano l’emarginazione sociale. Sono progetti che vanno dalla scolarizzazione all’educazione alimentare o puntano a costruire strutture e architetture a fini educativi o logicistici. E questo come religioso mi redime, mi rende sereno e purifica il mio mercato, dal momento che tutto ciò che guadagno serve a finanziarla. Anche quando le opere raggiungono prezzi elevati e forse assurdi, il fatto di non farne uso personale mi mette al riparo, perché so che quei soldi non saranno mai spesi per me.

Come definisce la missione di un artista nel mondo contemporaneo? 

Credo che il suo compito sia più nell’indicare che nel creare. Perché un vero artista è colui che vede e sa far vedere, sente e riesce a far sentire.

Alessandra Mammì, 07 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

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