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Una veduta dell’allestimento «Museo delle Opacità #2. Architetture e agricolture coloniali» al Museo delle Civiltà

Foto: Giorgio Benni

Una veduta dell’allestimento «Museo delle Opacità #2. Architetture e agricolture coloniali» al Museo delle Civiltà

Foto: Giorgio Benni

Il Museo delle Civiltà, un’«ambasciata fra le culture»

«Un museo che non si evolve con l’evolversi delle sue discipline non può far crescere il proprio pubblico», spiega il direttore Andrea Viliani. «Apriamo al contemporaneo perché sia una forma ulteriore di accessibilità, confronto e incontro». Il futuro dell’ex Museo delle Arti e Tradizioni popolari? «Un possibile museo archeologico del Made in Italy: moda, design, enogastronomia...». E intanto le collezioni crescono

Il 19 luglio 2022, in una conferenza stampa al Museo delle Civiltà nel quartiere Eur, a Roma, fu presentato un progetto di rilancio di un polo museale immenso, frutto dell’assemblaggio di cinque musei: 50mila metri quadrati di spazi espositivi, circa due milioni di oggetti con provenienze e catalogazioni differenti. Alcuni di questi musei erano nati fisicamente altrove, altri invece erano frutto di una storia secolare. L’elenco si dipanava dal Museo Preistorico Etnografico fondato nel 1875 da Luigi Pigorini a quello delle Arti e Tradizioni popolari inaugurato nel 1956, nell’edificio di fronte; dal nucleo importante delle arti e culture dell’Africa, delle Americhe, dell’Asia e delle isole del Pacifico alle collezioni del Museo di Arte Orientale inaugurato da Giuseppe Tucci nel 1957; dal Museo Coloniale chiuso negli anni ’70 a quello di geopaleontologia e litomineralogia dell’Ispra, anch’esso chiuso da diversi decenni. A guidare una sfida che sembrava, se non impossibile, di certo ardua era un coraggioso direttore dall’ottimo curriculum ma dal profilo di contemporaneista: Andrea Viliani (Casale Monferrato, Al, 1973). Ed eccoci ora, passati tre anni, a tirare le somme di quella scommessa e ragionare con lo stesso Viliani del presente e del futuro di uno degli esperimenti museali più complessi e interessanti d’Europa.

Spazi espositivi immensi, circa due milioni di oggetti con provenienze e catalogazioni differenti, unione di musei nati altrove e di collezioni in sede da decenni con criteri espositivi rimasti immobili nel tempo. Di fronte a tanta missione, quali linee guida le furono assegnate allora?
Il Museo delle Civiltà è un museo istituito nel 2016 che eredita una storia secolare. Il compito è raccontare tante storie insieme e ripercorrere le evoluzioni disciplinari attraverso una serie di progetti integrati fra loro. Un esempio è «Eur-Asia» in corso dal 5 maggio dove stiamo restaurando, catalogando e riesponendo migliaia di oggetti. È partito uno dei più grandi cantieri della nostra storia: 10 milioni di euro per riallestire il percorso dedicato alle collezioni asiatiche e tornare a esporre i 70mila capolavori delle collezioni radunate da Giuseppe Tucci e dall’Ismeo (Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente, Ndr) che uniremo a una straordinaria selezione delle collezioni etnografiche asiatiche del Museo Pigoriniano. Musei, come dicevamo, spesso chiusi nella storia istituzionale italiana e che qui riaprono insieme.

Chiusi anche per motivi politici, come il Museo Coloniale istituito nel 1923 da Mussolini.
Ma anche quelle sono collezioni che parlano di un capitolo della storia del XIX e XX secolo e che devono essere riproposte al pubblico responsabilmente. Il «Museo delle Opacità», ad esempio, è un progetto (a cura di Gaia Delpino, Rosa Anna Di Lella e Matteo Lucchetti, Ndr) che il 21 maggio è giunto al suo secondo capitolo e che vuole restituire questi materiali coinvolgendo le comunità di origine nella presentazione della storia coloniale italiana, che non sempre si insegna a scuola. Chiudere un museo ci priva della possibilità di raccontare chi siamo. Invece è doveroso riaprirli, i musei. Come è anche il caso del Museo dell’Ispra che sarà riallestito entro l’estate nel Salone delle Scienze per farne una scuola sulle discipline ambientali (ecologia, economia circolare, contrasto al dissesto idrogeologico...). O le collezioni dell’Alto Medioevo, all’Eur dal 1967, dove la storia della Roma classica incontra quella dell’Europa moderna e delle culture del Nord Europa.

Riunire tutto questo insieme di collezioni a prima vista sembrava un azzardo…
È un’occasione invece. Se dopo gli anni ’90 abbiamo cominciato a capire che la storia occidentale non era l’unica a cui fa riferimento, dobbiamo immaginare un nuovo museo antropologico come ambasciata culturale. Per di più questo lavoro iniziato nel 2022 richiede una pluralità di cantieri e uno sforzo enorme di studio, restauro, adeguamento degli spazi e moltiplicazione dei servizi (più didattica, più accessibilità). Ma dove altri Paesi hanno separato, noi uniamo per avere un museo dove raccontare le storie degli esseri umani dalla Preistoria a oggi, nello spirito dei padri fondatori e con il coinvolgimento dei ragazzi di oggi. Pensiamo alla commissione fatta ai Karrabing Film Collective (gruppo intergenerazionale di un’intera comunità aborigena che attraverso film e altri media elabora il rapporto fra gli esseri umani e i loro antenati, Ndr). Sono stati loro a chiedere di essere coinvolti in quanto rappresentanti viventi delle culture illustrate nel museo, per raccontare la loro versione della Preistoria, con un’idea del tempo non lineare che vede la coesistenza tra passato, presente e futuro. Le scritte, le mappe che hanno tracciato tutti insieme (madri, padri, bambini) accolgono oggi i visitatori facendo salire al secondo piano della Preistoria il primo piano dell’Etnografia. È un’occasione unica per unire le scienze della terra e le scienze umane, le culture tra di loro, gli esseri umani con le altre specie viventi, parlare di evoluzioni anche per gli animali, i minerali, i vegetali. Imparare a convivere con le altre specie per coltivare un pianeta più sano.

Quindi stiamo assistendo all’evolversi di un immenso laboratorio?
Un’«ambasciata fra le culture». Roma è per sua natura «Caput mundi» e un museo come questo può rilanciarne la funzione: stiamo diventando un luogo sempre più deputato al confronto e al dialogo interculturale. In sintonia con il Piano Mattei per l’Africa, accogliamo i ministri della Cultura dei popoli indigeni di Brasile, Messico, Oman, Thailandia, Tagikistan, Mongolia, Ucraina e Cina (solo negli ultimi mesi) per firmare memorandum e progetti di collaborazione. Lavoriamo con comunità diasporiche in Italia. E affrontiamo anche le restituzioni non come fine, ma come inizio di nuove relazioni. Questi sono «oggetti ambasciatori», fanno parte di una cultura ma hanno contribuito anche a crearne un’altra. Quindi è importante che le collezioni non si fermino, che continuino a crescere e trasformarsi...

Museo delle Civiltà, re-inaugurazione «phonomuseum_rome». Foto: Margherita Villani. Courtesy of MuCiv

Sta dicendo che il museo continua a crescere?
Certo, ad esempio con i reperti preistorici di Grotta Guattari, uno dei siti più importanti al mondo per la cultura neandertaliana e attorno ai quali, a fine anno per le celebrazioni del 150esimo anniversario del Museo Pigoriniano, verrà costruito un «laboratorio Neanderthal» progettato da Studio Azzurro: area multimediale e interattiva per raccontare come ci siamo evoluti. Ci sono poi acquisizioni in corso, già finalizzate al riallestimento delle collezioni africane, americane, asiatiche, oceaniane; e ancora nuclei fondamentali che stanno entrando attraverso lasciti testamentari, depositi e acquisti, grazie al generoso supporto della nostra Direzione generale Musei, di capolavori Asmat dalle isole del Pacifico, Dogon e Koro dall’Africa, e opere Gandhara e Khmer dall’Asia.

Quale sarà invece il nuovo profilo dell’ex Museo delle Arti e Tradizioni popolari?
Un possibile museo archeologico del Made in Italy: luogo che racconta come sono nati moda, design, enogastronomia italiani e molte altre forme di creatività. Ne celebreremo quest’estate l’identità con una mostra dal titolo «Le fiabe sono vere... Storia popolare italiana» (a cura di Massimo Osanna e Andrea Viliani, con Cristiana Perrella e i funzionari del museo, allestimento dei Formafantasma, Ndr). Omaggio a Italo Calvino che proprio nel 1956, anno di fondazione del museo, pubblicò l’antologia Fiabe italiane. «Le fiabe sono vere», come lui scrisse, perché parlano di noi, delle nostre necessità, paure e desideri. Ma la mostra vuole anche diventare esempio di museo accessibile a tutte le tipologie di pubblico senza distinzioni. Una favola raccontata da video in Lis (Lingua italiana dei segni, Ndr), materiali in Braille e declinazioni in «easy to read» e Caa (Comunicazione aumentativa e alternativa, Ndr). Sarà una mostra in cui l’accessibilità è parte dell’allestimento, non un’aggiunta. L’obiettivo strategico è infatti tenere le collezioni insieme, raccontare le loro storie e farlo per tutte e per tutti. Senza chiudere un solo giorno, nonostante i tanti cantieri in corso.

Di quali cantieri sta parlando e quanto ci vorrà per completarli?
Almeno due o tre anni. Sono grandi lavori che non si facevano dal 1942 e che ci obbligano a chiudere a pezzi. Non solo cantieri culturali ma anche antincendio, antisismico, di climatizzazione e nuovi servizi (bar, bookshop, biblioteche digitalizzate). Il masterplan è definito. Il progetto è partito: questo museo prenderà forma per essere più aperto, sicuro, confortevole, coinvolgente e appassionante. E, ripeto, non chiuderà mai, nemmeno un giorno. 

E il pubblico risponde?
Sta rispondendo e soprattutto si sta diversificando. L’obiettivo è superare il milione di visitatori! Non bastano i 70mila precedenti per un museo che ha la potenzialità di proporre al grande pubblico un vero e proprio viaggio nel tempo e nello spazio. E non c’è soltanto il pubblico che conosceva già il museo; c’è una parte importantissima di nuovo pubblico soprattutto digitale che in alcuni social è cresciuto persino del 300 per cento. Forse chi conosceva il museo come era prima non trova più alcune certezze, ma molti altri stanno iniziando a entrare e interagire. E per fugare ogni dubbio: parecchi allestimenti del passato erano già in corso di ripensamento quando sono arrivato. Del resto i funzionari sono i primi a sapere che un museo che non si evolve con l’evolversi delle sue discipline non può far crescere il proprio pubblico.

La sua esperienza nell’arte contemporanea ha avuto un ruolo nel saper immaginare tanta rivoluzione?
Oggi l’arte contemporanea si confronta con molte delle tematiche già presenti in queste collezioni: il dialogo tra le culture, il rispetto della convivenza tra esseri umani e altre specie viventi, l’importanza delle tradizioni ancestrali e l’incontro fra le identità. Quindi quello che noi portiamo qui non è tanto la contemporaneità dell’arte, ma la contemporaneità del nostro stesso vivere per rileggere le collezioni non come tracce del passato, ma come qualcosa che ci coinvolge profondamente nel presente. Gli artisti visivi, ma anche scrittori, cuochi, musicisti vengono invitati non per esporre, ma per fare ricerca. Abbiamo istituito le Research Fellowship (come i grandi musei analoghi nel mondo, dal British Museum al Quai Branly o al Metropolitan) perché queste persone ci aiutino ad accogliere altre forme espressive. Se parliamo di arte asiatica o africana perché non dare la parola da chi viene da quelle culture? Già il nome, Museo «delle» Civiltà e non «della», indica che dobbiamo allargare il perimetro per abbracciare altre interpretazioni. Apriamo al contemporaneo perché il contemporaneo sia una forma ulteriore di accessibilità, confronto e incontro fra i popoli. E poi non è una novità: chi fosse entrato nel 1942 in una delle nostre sedi, Palazzo della Scienza Universale o Palazzo delle Tradizioni, avrebbe visto la vetrata di Giulio Rosso, i mosaici di Enrico Prampolini e Fortunato Depero, gli affreschi di Valerio Fraschetti... 

Quindi lo scopo è creare un museo planetario e globale?
Non esattamente. Anche se questo è un museo dove si parla del mondo, in realtà è un mondo visto dall’Italia: un luogo che racconta pagine, magari meno note, della nostra storia. Giuseppe Tucci fonda le discipline dell’Orientalismo a livello globale; Lamberto Loria, con sessant’anni di anticipo su Pasolini, intuisce che se non si fossero preservate le tradizioni locali, di fronte al nuovo Stato moderno, si sarebbero perse, e quindi organizza la Mostra di Etnografia Italiana del 1911, da cui derivano quelle collezioni. E lo sottolineo ancora una volta: quello che caratterizza il Museo delle Civiltà è l’aver deciso di unire, non dividere. Ovviamente è una sfida complessa, sarà più chiara una volta che i cantieri saranno chiusi e le collezioni in dialogo. Cioè quando l’orchestra inizierà a suonare tutti gli strumenti insieme. Allora i suoni del mondo e delle epoche intoneranno una splendida sinfonia. Non so se io ascolterò questa musica, ma sicuramente so che il mio compito di direttore è aiutare che il processo si compia e che l’orchestra una volta formata inizi a provare.

Alessandra Mammì, 11 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

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