Jenny Dogliani
Leggi i suoi articoliGiorno tre
Nella Biennale più colorata di sempre, anche il cielo si tinge. Una densa nube magenta si è alzata in mattinata dall’Isola di San Giacomo in Padulo, avamposto veneziano della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo dove la padrona di casa Patrizia Sandretto, insieme ad Hans Hulrich Obrist e all’artista, danzatrice e coreografa coreana Eun-Me Ahn, ha accolto i principali protagonisti del mondo dell’arte italiano e internazionale giunti a Venezia per la 60ma Biennale. La performance «Pinky Pinky “Good”: San Giacomo’s Leap into Tomorrow», accompagnata da canti sciamanici e cover «coreanizzate» di musica dance occidentale, ha celebrato un rituale collettivo e trasformativo di benedizione.
«Eun-Me Ahn ha invocato gli spiriti del passato su un’isola che, in tempi diversi, ha ospitato un antico monastero e una guarnigione militare dell’era napoleonica, onorando la sua nuova esistenza come luogo per l’arte contemporanea. Il progetto ha seguito un andamento dinamico incorporando fumo e pietre dipinte di rosa sull’isola, arricchendo i suoi spazi con tappe e simboli inaspettati. All’interno dell’ex polveriera, l’artista ha stabilito un collegamento unico tra l’aldilà e il presente attraverso l’inclusione di sculture umane, suscitando un fluido intreccio di tempo e spazio che trascende i confini storici. Eun-Me Ahn ha concluso la performance versando simbolicamente sull’isola acqua di mare di Venezia usando una gru, allusione a un audace salto verso il futuro di San Giacomo attraverso la trasformazione dei suoi elementi fondamentali in nuovi simboli», spiegano gli organizzatori. Così la variopinta moltitudine di feticci schierata sul pavimento di una delle sale in cui nel 2025 si inaugurerà una nuova sede della Fondazione torinese, ha ricordato a tutti i presenti come in ciascuno di essi ci sia un’energia latente da sprigionare attraverso l’interazione, lo scambio, l’incontro.
Un concetto che ritroviamo alla base del Padiglione Italia, affidato quest’anno a Massimo Bartolini. Nel progetto «Due qui / To hear», l’interazione è una forma di ascolto, condizione necessaria alla conoscenza. «Ascoltiamo per poter interpretare il nostro mondo e fare esperienza del significato», è la citazione di Pauline Oliveros che accoglie i visitatori all’ingresso del Padiglione Italia all’Arsenale. Uno spazio in cui immergersi e farsi avvolgere da suoni e silenzi, vuoti e pieni. La labirintica installazione ambientale di tubi crea un percorso in cui perdersi e vagare accompagnati dalle note di un enorme carillon. Al centro una grande vasca rotonda colma di acqua lenisce l’effetto di spigoloso e di costrizione dell’impalcato che la avvolge. La liscia superficie dell’acqua è lievemente perturbata dalle onde sonore e dal passaggio dei visitatori. È uno spazio quantistico dove l’osservatore influenza ciò che osserva, a dimostrazione di come la stessa conoscenza sia sempre il frutto di un intreccio, di una relazione e sempre afferente alla sfera della complessità. L’altra sala presenta invece un lungo spazio vuoto, la parete di sinistra è viola, quella di destra verde. Al centro sul pavimento un lungo tubo in ferro a sezione quadrata, l’esterno è bianco, l’interno è vuoto, attraversato dal silenzio e dal buio, dalle medesime particelle che attraversano ciò che noi erroneamente percepiamo come vuoto, ma che è energia in stato di quiete. Sopra una piccola statuina dorata. raffigura un Buddha stante, incarna il concetto dell’imperturbabilità del «Risvegliato», il raggiungimento del Nirvana, della suprema conoscenza.
Complessità, incontro, interazione e conoscenza sono le basi del nuovo mondo e della nuova società cui la Biennale guarda e che auspica con forza. Una vera apertura a geografie, culture e tempi lontani dai nostri sono l’unica via possibile per innescare un vero e profondo cambiamento di paradigma e nuovi equilibri geopolitici che se non cambieremo noi cambierà la storia, come ha sempre fatto nei secoli e millenni. La Cina, Paese dalla storia e tradizioni millenarie, cancellate dalla Rivoluzione culturale, è oggi alla ricerca di una sintesi. Il Padiglione ruota intorno a un progetto di recupero del passato e di apertura all’altro, un cambio di paradigma epocale. Il carattere «ji (unione)», raffigurato negli ideogrammi con tre uccelli appollaiati su un albero, ha vari significati a seconda del contesto tra cui raccogliere, riunire, combinare prendere. Nel Padiglione cinese, che raccoglie antichi documenti, sculture, video e installazioni, ji rappresenta l’incontro della diversità (identità, razze, credenze, culture) e la loro accettazione come forma di una nuova identità. Una sezione del Padiglione presenta la collezione digitalizzata di antichi dipinti cinesi raccolti all’estero in 18 anni, ricostruendone la storia di perdita e riappropriazione, espressione della circolazione e dell’influenza culturale. Ispirate a tali documenti, le opere di sette artisti contemporanei concretizzano questo incontro tra epoche e culture. I paesaggi raffigurati negli antichi rotoli e screen diventano delicati video di laghi e architetture rarefatte, alternati a schermi monocromatici. Chilometri di documenti su carta sono trasposti in imponenti sculture simili a pietre, dove la tradizione calligrafica incontra la matericità dell’arte contemporanea. Al centro della sala un’enorme colonna ricoperta di fogli di impalpabile carta di riso diventa il delicato pilastro su cui un intero mondo si regge e si riconosce.
Il concetto di appartenenza è anche alla base del progetto realizzato da Aziza Kadyri e Qizlar Collective per il Padiglione dell’Uzbekistan. «Don’t miss the cue!» raccoglie una riflessione sull’esperienza della diaspora vissuta sulla dall’artista e da numerose donne uzbeke. Il percorso ripropone le quinte destrutturate di un teatro, con sipari, impalcature, scenografie, drappi e abiti di scena. La gestualità, cui sono dedicati vari video, diventa uno strumento centrale per amplificare retaggi che provengono da lontano. Il blu è il colore che ricorre in tutte le opere esposte, insieme allo suzani, ricamo tipico e tradizionale, realizzato dalle ricamatrici sulle stoffe e dall’intelligenza artificiale sugli schermi che punteggiano il percorso. A livello generale tecnologia, virtualità e intelligenza artificiale sono scarsamente presenti. L’aspetto artigianale, manuale e umano che predomina nella Biennale di Pedrosa potrà renderci o non renderci meno stranieri, ma ci rende di sicuro meno alienati da noi stessi.
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