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Thierry Geoffroy/Colonel nel Padiglione del Belgio

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Thierry Geoffroy/Colonel nel Padiglione del Belgio

Diario da Venezia quarta parte | Reportage in aggiornamento dalla 60. Biennale

Un viaggio tra i Padiglioni Nazionali ai Giardini alla ricerca dei processi alla base di una vera de-colonizzazione 

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Jenny Dogliani

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Giorno 4

Per ricostruire bisogna prima decostruire. Non è sufficiente spalancare le porte alle tante e tutte interessanti espressioni e tradizioni culturali tenute lungamente e ingiustamente ai margini dal potere occidentale. Serve un’operazione autentica e profonda, che smantelli dall’interno strutture e concetti secolari dominanti per innestare nuove estetiche e nuove idee che altrimenti continueranno a correre parallele, senza intersecare il vero cambiamento. Sono operazioni lunghe, difficili e complesse, di cui la Biennale può costituire un felice avvio, ma che starà al mondo dell’arte e della cultura portare avanti in modo autentico e costante senza incorrere in due grandi rischi, il primo, che il fenomeno possa esaurirsi in una moda passeggera, il secondo, delineare un orizzonte sterile e indefinito simile al vuoto di potere in cui si può incorrere quando si abbatte un regime. Se non si rende il terreno fertile a nuove culture, inutile piantare nuovi semi. 

Gran Bretagna

Gra Bretagna

Vari Paesi nei Padiglioni ai Giardini  mettono in atto un vero e profondo processo di decostruzione, capace di interrompere e invertire il racconto lineare della storia colonialista, per tornare su se stesso con uno sguardo diverso.La Gran Bretagna con «Ascoltando la pioggia tutta la notte», l’opera di John Akomfrah, regista e sceneggiatore britannico originario del Ghana, utilizza il suono e il video per rimodellare la propria conoscenza dell’imperialismo britannico e della condizione di esilio a esso associato. Immagini di archivio, vecchie fotografie in bianco e nero del periodo colonialista, di disastri ambientali, delle guerre in Corea e Vietnam, degli immigrati caraibici, sono riprodotte in opere video e accostate fra di loro per sfumare lentamente in altre immagini di oggetti ed elementi naturali; su ogni immagini scorrono sovrapposti flussi d’acqua che pian piano creano dissolvenze e cancellano quei frammenti di storie. Sui video scorrono poi superfici monocrome ispirate a Rothko, il colore ruvido e la texture disomogenea rispecchia lo stato di sofferenza e di abbandono, rappresentando attraverso l’astrazione il dramma della condizione umana.

Gran Bretagna

Olanda

Ruvido e forte è anche il processo di decostruzione culturale messo in atto dal collettivo congolese di Lusanga CATPC (Renzo Martnes e Hicham Khalidi) per l’Olanda. «La celebrazione internazionale del blasfemo e del sacro» comprende sculture in terracotta grezza (proveniente da foreste secolari), tracce di vernice arancione (colore associato all’indipendenza olandese) che colano come rigagnoli dalle pareti bianche, e video girati nelle piantagioni di cacao. La superficie delle sculture ricorda quella delle fave di cacao e insieme a una spiccata gestualità, e a soggetti di forte impatto, denuncia i meccanismi di sfruttamento che si nascondono dietro colture intensive, espropriazioni e sfruttamenti. Una delle sculture, per esempio, rappresenta lo stupro di una donna, un’altra un topo gigante massacrare uno stagno di pesci, un’altra ancora la decapitazione di un indigeno ribelle. La manipolazione espressionista dell’argilla grezza nasconde a una prima vista la brutalità delle scene rappresentate. L’arancio che cola dalle pareti rappresenta il bene, il pentimento, la speranza. «Lusanga sorge su una confluenza. È qui che si incontrano i due grandi fiumi  (Kwilu e Kewnge). Qui, in questa confluenza, stiamo costruendo un nuovo mondo, dove le energie si incontrano. Queste energie combinate ci permettono anche di costruire una connessione tra il lavoro delle piantagioni, a malapena retribuito, e il mondo dell’arte. Questa confluenza non è solo in casa nostra, ma anche all’altro capo di questo fiume, all’altro capo di questo rapporto di potere», affermano gli artisti.

Olanda

Uruguay

Un duro senso di sradicamento è alla base dell’opera di Eduardo Cardozo, che nel Padiglione dell’Uruguay a Venezia ha portato le pareti del proprio studio staccate come un affresco. La superficie corrosa e l’intonaco consumato, che conferiscono all’opera una raffinata e poetica matericità, sono il simbolo di una diaspora fisica e culturale. Alla base del lavoro scultoreo e pittorico di Cardozo vi è un dialogo con l’opera di Tintoretto. Le garze utilizzate per trasportare a Venezia la parete del suo studio sono appese al soffitto al centro della sala dando forma a una vaporosa scultura che ricorda i panneggi delle vesti dei personaggi raffigurati dal celebre pittore veneziano, aprendosi a un incontro tra culture ed epoche distanti.

Canada

Austria

Una processo di rarefazione e incontro con Venezia è anche alla base dell’opera immersiva di Kapwani Kiwanga, «Trinket», realizzata per il Padiglione del Canada. Le pareti interne ed esterne sono ricoperte di fili di perline di vetro blu, che durante l’antichità da Murano erano importate in tutto il mondo seguendo precise rotte commerciali. Il blu oltremare, colore prezioso associato alla ricchezza, racconta gli equilibri geopolitici e gli intrecci culturali di secoli lontani. Ad altri bui scenari odierni guardano invece l’Austria, con l’opera di  Anna Jermolaewa (1970), artista rifugiata proveniente da Leningrado che attraverso una performance di danza rappresenta un cambio di potere in Russia, e la Polonia, che con l’installazione sonora di Open Group, «Ripeti dopo di me», riproduce in un ambiente buio i suoni reiterati della guerra, raccontata dalle testimonianze di rifugiati ucraini giunti in Polonia dal 2022. Il buio delle sale attutito da due insegne rosse al neon restituisce il cupo e quotidiano senso di pericolo e la totale assenza di riferimenti fisici da cui si è completamente avvolti quando si è soli con se stessi e la propria sopravvivenza.

Polonia

Repubblica Ceca

La guerra in Ucraina ci ricorda quanto ingiuste e dolorose possano rivelarsi la costruzione di un’identità di un popolo, l’affermazione dell’indipendenza nazionale e la rivendicazione delle proprie radici. Risarcire gravi e profonde ferite inflitte nel corso della storia è un processo lento, complesso e difficile. Metafora e monumento di simile condizione è Lenka, nel Padiglione della ceco. La celebre giraffa catturata in Kenya nel 1954, trasportata allo zoo di Praga, sopravvissuta in cattività solo due anni, poi tassidermizzata e conservata nel museo, dopo aver gettato gli organi nelle fogne cittadine. L’opera di Eva Kotakova, «Il cuore di una giraffa in cattività è dodici chili più leggero», è un’installazione ambientale percorribile che riproduce l’interno del lungo collo sezionato dell’animale disposto a cerchio. Al centro della sala una lavagna e uno spazio di incontro e riflessione per conoscerne la storia, il suo significato e le sue implicazioni culturali. Sul pavimento lo scheletro di Lenka riprodotto e come suono che pervade il Padiglione gli inni dei Paesi che la giraffa attraversò nel suo lungo viaggio verso Praga, molti oggi non più esistenti. «Un tale complesso metabolismo, formato da storie, crepe, poemi e suoni, ci invita a imparare insieme in questo corpo frammentario e collettivo dove coloro che sono stati silenziati possono essere ascoltati e nuove storie possono essere raccontate. “Il cuore di una giraffa in cattività è dodici chili più leggero” si apre con uno spazio in cui l’appartenenza può essere formata attraverso relazioni riparatrici ed ecologiche invece che attraverso nozioni fisse di identità, tassonomia, frontiere e nazione», conclude la curatrice Hana Jeneckova.

Arabia Saudita

Corea

Jenny Dogliani, 19 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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