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Matteo Cocci
Leggi i suoi articoliEra forse destino che un luogo come la Mole Antonelliana, realizzata dall’architetto Alessandro Antonelli con l’obiettivo iniziale di ospitare un edificio sacro (il terreno su cui sorge era stato infatti acquistato dalla Comunità ebraica torinese alla metà del XIX secolo per erigervi la sua nuova sinagoga), venisse destinato nel 2000 ad accogliere il Museo Nazionale del Cinema, quasi certificando il fatto che la «settima arte» sia ormai uno dei pochi riti collettivi (laici) rimasti. Oggi il museo rappresenta un punto di riferimento dentro e fuori i confini italiani. A guidarlo è Carlo Chatrian, succeduto in questo ruolo a Domenico De Gaetano nel settembre 2024.
Nato a Torino nel 1971, giornalista, autore e programmatore cinematografico, entrato nel 2001 nel mondo dei festival come vicedirettore dell’Alba International Film Festival, poco più di dieci anni dopo Chatrian compie il salto internazionale con il Locarno Film Festival, di cui è nominato direttore artistico nel 2012. Poi eccolo in Germania, dove nel 2019, insieme a Mariette Rissenbeek, assume la guida della Berlinale. Risale allo scorso autunno il suo ritorno in Italia alla guida del Museo Nazionale del Cinema di Torino, con incarico quinquennale. «Il Giornale dell’Arte» lo incontra negli uffici di via Montebello per fare un primo bilancio delle attività del museo e per scoprire quali novità si stiano configurando all’interno di una delle più importanti istituzioni al mondo dedicate alla cinematografia di ieri, di oggi e di domani. A partire dal recente ingresso in collezione di un raro manifesto disegnato da Aleksandr Rodčenko.
In questi primi mesi alla guida del Museo Nazionale del Cinema di Torino ha scoperto elementi di questa istituzione che prima non aveva considerato?
È sempre così, si comincia con delle idee astratte che vanno poi calate nella realtà. Il bilancio di questi primi mesi è comunque estremamente positivo. I progetti, quelli già avviati così come quelli in fase di progettazione, procedono bene, e per questo sono riconoscente allo staff del Museo che, in pochi mesi, ha adattato la mostra di James Cameron (in corso fino al 15 giugno, Ndr) ai volumi, unici nel loro genere, della Mole Antonelliana. L’altro aspetto di cui vado fiero è la nuova direzione che abbiamo impresso al Cinema Massimo, la nostra multisala adiacente alla Mole, dove nelle ultime settimane sono state accolte alcune delle voci più autorevoli del cinema contemporaneo: tra le altre, quelle di Amir Naderi, Radu Jude e Mohammad Rasoulof. Siamo inoltre felici di ospitare Matteo Garrone a Torino l’8 maggio. Ci sono tutte le premesse per svolgere un buon lavoro, spetterà poi ai visitatori e agli spettatori dare un giudizio. In ogni caso, per quel che ho potuto vedere finora, la Mole si conferma uno dei luoghi più amati della città.
A quali film si darà maggiore spazio nel Cinema Massimo? In un’epoca in cui il cinema non è più, come in passato, fenomeno di massa, crede ancora nel rito collettivo della visione in sala?
Rifacendoci alla metafora del corpo umano, il vero cuore di questa Istituzione è proprio la Mole, mentre il Cinema Massimo potrebbe essere paragonato ai polmoni, che danno aria all’organismo, sotto forma di opere e artisti che attraverso le loro testimonianze portano il rinnovamento all’interno del Cinema stesso e di conseguenza anche della Mole Antonelliana. La riflessione sul cinema è corretta, la persona media non va al cinema con la stessa frequenza degli anni ’60, ’70 e ’80. La bellezza di condividere una proiezione con altre persone rimane, ma va costruito un contesto che invogli cittadini, che al giorno d’oggi sono costantemente sollecitati da impulsi di ogni tipo, a scegliere la sala cinematografica. Per farlo serve mettere in piedi, sia in termini di comunicazione sia di proposta, un’offerta che motivi le persone, invece di andare al supermercato la domenica a comprare oggetti spesso inutili, a venire a «consumare» il cinema. Un investimento molto più redditizio per il nostro benessere interiore.
Dal punto di vista tecnico, quali innovazioni vorrebbe introdurre nell’allestimento espositivo del Museo?
Per quanto riguarda il nuovo allestimento, stiamo valutando diverse possibilità. Dal Ministero della Cultura abbiamo ricevuto un finanziamento destinato a due tipi di intervento. Il primo, di tipo strutturale (dato per scontato che un monumento «sacro» come la Mole Antonelliana non può essere in alcun modo intaccato), ci permette di esplorare la possibilità di dotare il Museo di un videomapping legato alla volta interna dell’Aula del Tempio, che diventerà una sorta di «tela» su cui proiettare immagini e video. Si tratta di un progetto ambizioso ma siamo fiduciosi di vederlo presto avverato. Ci tengo a precisare che da questo punto di vista alcune importanti novità sono già state introdotte con la mostra di James Cameron, che ha visto l’ascensore panoramico venire avvolto da tre schermi semi-trasparenti di 10x10 metri. Si tratta di un’implementazione che rimarrà anche dopo la fine di questa rassegna, a dimostrazione di come il museo, in alcune sue parti, abbia già cambiato forma. Il secondo tipo di intervento finanziato dal Ministero prevede un ammodernamento delle parti interessate dall’allestimento permanente. Infine, abbiamo in mente di modificare l’organizzazione dei flussi di entrata e uscita dei visitatori.
I fondi stanziati dal Ministero saranno sufficienti a coprire le spese richieste dal nuovo allestimento?
Lo saranno per gli interventi già programmati. Per quanto riguarda le operazioni che devono ancora essere studiate, è difficile dirlo. Siamo fiduciosi che i soci fondatori (la Città di Torino, la Regione Piemonte, la Fondazione Compagnia di San Paolo, la Fondazione Crt, l'Associazione Museo Nazionale del Cinema e Gtt, Gruppo Torinese Trasporti, Ndr) sapranno darci una mano, laddove necessario.
Tra le tante aree in cui si muove il Museo del Cinema c’è la preservazione e il potenziamento della sua vasta collezione di oggetti e opere, così come il restauro di pellicole che rischiano di andare perdute.
Ci rende particolarmente orgogliosi la recente acquisizione di un’opera rarissima, il manifesto originale de «La corazzata Potëmkin» disegnato dal maestro del costruttivismo russo Aleksandr Rodčenko. Per quanto riguarda la nostra collezione di oggetti, stiamo perfezionando l’arrivo al museo di alcuni fondi legati all’epoca che precede la nascita del cinema, che includono libri antichi, lanterne magiche e altri preziosi reperti. Infine, parlando dei restauri, abbiamo appena presentato, nel contesto unico della sala più alta d’Europa, il Cinema Alpino Skyway sul Monte Bianco, il lavoro conservativo che abbiamo condotto sui materiali in 35 mm relativi a un film mai realizzato, «The Story of William Tell» di Errol Flynn. Annunceremo altri due progetti di restauro per il 2025, nel frattempo stiamo dotando il nostro laboratorio di nuove apparecchiature.
Pensa di sviluppare progetti legati al mondo dell’arte, magari in rapporto con la vostra ricca collezione di manifesti che include, tra i tanti, lavori di importanti autori come Leopoldo Metlicovitz e Duilio Cambellotti?
In relazione al manifesto di Rodčenko di cui accennavo prima, stiamo elaborando un percorso espositivo che mi auguro coinvolgerà anche altri istituti e il cui focus è il concetto di «manifesto d’artista». Il Museo possiede poster di grande formato legati alla corrente futurista, oltre a quello del film di Francesco Rosi «Cadaveri eccellenti» (1976) disegnato da Enrico Baj, e due realizzati da Renato Guttuso. In più disponiamo della serie di locandine realizzate da Andy Warhol per «Querelle de Brest» (1982) di Rainer Werner Fassbinder: l’idea è di mettere insieme un nucleo di opere per raccontare non il film ma l’artista che l’ha raccontato graficamente, focalizzandosi sull’oggetto d’arte in quanto tale e non in quanto strumento promozionale.
Da che cosa nasce la sua propensione a considerare il museo soprattutto come «un insieme di persone»?
Sono profondamente convinto del fatto che si lavori insieme piuttosto che individualmente, tanto più in un ambito come il cinema, arte collettiva per eccellenza. Nella mia esperienza alla direzione di festival cinematografici, e prima come programmatore, ho imparato quanto sia importante il lavoro di squadra. Durante la conferenza di presentazione ho voluto presentare i responsabili di tutti i dipartimenti che compongono il museo, in quanto ritengo che le loro competenze siano preziose anche per il mio lavoro.
Avete annunciato un servizio di visite alla collezione del Museo condotte da lei in prima persona.
Siamo ancora in una fase di sperimentazione, ho accompagnato un gruppo di influencer a visitare la mostra di James Cameron, puntiamo ad aprire il servizio anche al pubblico. Stiamo lavorando soprattutto sulla logistica: durante gli orari di apertura queste visite sarebbero proibitive, visto l’alto numero di persone che attraversano gli spazi. Inoltre la configurazione stessa del museo, con una passerella che sale a spirale lungo la volta interna della Mole, non si addice particolarmente a questo tipo di iniziativa di gruppo.
Nel 2013, al Locarno Film Festival, dichiarava: «Il cinema per me è una macchina per sognare». È ancora di questo avviso? Quale importanza riveste la dimensione onirica nel suo lavoro fuori e dentro il Museo del Cinema?
Per rispondere faccio nuovamente riferimento alla rassegna attualmente in corso al museo, incentrata sull’immaginario di un regista visionario come James Cameron. Essa consiste in un percorso espositivo che ha avuto la sua prima tappa a Parigi: dovendolo adattare ai nostri spazi, abbiamo messo in campo un grande lavoro non solo dal punto di vista scenografico ma anche concettuale, grazie al quale la mostra ha assunto un carattere di sospensione che potremmo definire onirica. D’altra parte il cinema del regista canadese, divenuto celebre per l’impiego di tecnologie rivoluzionarie, sfuma quasi sempre in una dimensione «organica»: guardando il primo capitolo di «Avatar» (2009), lo spettatore ha l’impressione di fluttuare nell’aria così come, assistendo ad «Avatar. La via dell’acqua» (2022), la sensazione è di essere in immersione. Il cinema è in verità un’arte molto «reale» (Chatrian indica una fotografia di scena di «Fitzcarraldo», film del 1982 di Werner Herzog, appesa alla parete del suo ufficio, per la realizzazione del quale un intero battello fu issato su una collina nel mezzo della foresta amazzonica, Ndr), ma il risultato è quello di far assaporare situazioni che non viviamo quotidianamente, facendoci vestire i panni di personaggi completamente diversi da noi. Nel buio di una sala cinematografica vediamo sfilare una sequela di immagini che inducono lo spettatore a cullarsi in uno stato di coscienza alterato molto simile al sogno, difficilmente replicabile guardando i film a casa.
Un’altra direzione in cui ha dichiarato di voler procedere è quella della ricerca e del supporto al cinema indipendente. Ci può dire qualcosa in merito?
Tornando al Cinema Massimo, voglio specificare come al suo interno vivano due anime: da un lato il cinema si configura come una sala di prima visione, che accoglie quindi film che, seppure da noi selezionati, escono in contemporanea anche nelle altre sale della città e del Paese; dall’altro è il luogo deputato alle proiezioni della Cineteca di Torino. La mia esperienza nel mondo dei festival mi ha fatto capire a fondo quanto la percentuale di film che raggiungono la sala sia minima se paragonata al numero di pellicole che viene prodotto ogni anno. Il mio desiderio in tal senso è fare del Cinema Massimo una piattaforma in cui tutto il cinema viene mostrato: poche sere fa abbiamo proiettato un documentario olandese sull’Alzheimer, «Human Forever» (2023), con una grande risposta di pubblico; nella sala accanto presentavamo l’ultima opera del duo artistico Masbedo, «Arsa» (2024). Quando abbiamo presentato «Il seme del fico sacro» (2024), distribuito in Italia con un certo successo, lo abbiamo fatto accompagnandolo con tutti gli altri film del regista, l’iraniano Mohammad Rasoulof, per rendere la profondità di filmografie che spesso si conoscono solo in minima parte.
Quanto sono per lei rilevanti le attività del Torino Film Lab?
Consideriamo il Torino Film Lab (Tfl) il nostro fiore all’occhiello a livello internazionale. È uno dei laboratori più ambiti per la produzione di film indipendenti. Nel 2024 abbiamo sostenuto «Vermiglio» (2024) di Maura Delpero, il film candidato dall’Italia agli Oscar del 2025. Proprio oggi sono stati annunciati i film che verranno proiettati al Festival di Cannes e, per la prima nella storia, due film da noi sviluppati («Renoir» di Chie Hayakawa e «Romería» di Carla Simón) saranno presentati all’interno della competizione ufficiale, mentre altri tre lungometraggi sono stati inclusi nella prestigiosa sezione «Un Certain Regard». Il Tfl è un incubatore di talenti dal taglio fortemente internazionale, il suo scopo è quello di dare supporto non a registi già affermati, ma alle nuove leve.
Uno degli obiettivi del suo mandato è potenziare la credibilità e visibilità a livello internazionale del Museo del Cinema. Avete già avviato contatti o collaborazioni con altre istituzioni a voi analoghe?
Parliamo di un percorso già avviato prima del mio arrivo che stiamo cercando di intensificare. A gennaio ho visitato l’Eye Filmmuseum di Amsterdam, con cui ci sono possibilità di collaborazione, mentre a fine aprile sono stato al convegno della Fiaf a Montreal, la federazione che riunisce le cineteche di tutto il mondo. Il primo passo è condividere i propri percorsi e trovare punti di sinergia. Alcune iniziative sono già state inaugurate, per esempio il progetto legato a Matteo Garrone, alla cui filmografia dedichiamo una retrospettiva al Cinema Massimo e una mostra fotografica (fino al 29 giugno) sulla cancellata storica della Mole, con scatti dal set di «Io capitano» (2023). Questo doppio evento è il punto di partenza di un’importante collaborazione tra noi e la Cineteca di Bologna, nel contesto della quale verrà realizzato il film recording degli ultimi quattro film di Garrone, un’operazione «contro-intuitiva» che consiste nel trasferire su pellicola lungometraggi che fino a quel momento hanno avuto una vita esclusivamente digitale. Si tratta di un’operazione lungimirante, in quanto ad oggi la durata della vita di un «Dcp», ovvero il formato di un film girato in digitale, non è nota. Il passaggio da un Dcp alla pellicola permette non solo di usufruire di un supporto fisico e quindi durevole, ma anche di far acquisire alle immagini una dimensione estetica unica nel suo genere.