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Maurizio Cattelan, «America»

Sotheby’s

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Maurizio Cattelan, «America»

Sotheby’s

Cattelan vale quanto l’oro: il suo gabinetto aggiudicato per 12 milioni

Un ulteriore colpo ad effetto dell'opera, che fin dal suo debutto aveva innescato un dialogo col pubblico, chiamato a usarlo e quindi a interrogarlo, sul senso dell'arte e del lusso

L'intento concettuale di «America» (2016), tra le opere più iconiche di Maurizio Cattelan (1960), ha aggiunto da Sotheby's, in asta, un nuovo capitolo della sua storia sospesa tra gioco e provocazione. E ovviamente ironia. Presentato con una stima di vendita che, per la prima volta nella storia delle aste, era proporzionata al peso in oro dell'opera - calibrata al tasso del 31 ottobre 2025, quindi 10 milioni di dollari per 101,2 kg - è stata venduta il 18 novembre per 12,1 milioni di dollari. Poco più del suo valore reale, dunque, raggiunto solo grazie alle commissioni. L'aggiudicazione netta, a conti fatti, combacia esattamente con la valutazione iniziale di 10 milioni di dollari.

Buffo, per certi aspetti, che nel mercato dove il valore è per sua essenza aleatorio, questo lavoro sia stato battuto esattamente per quel che vale. O meglio, per quel che vale l'oro. Sembra un ulteriore colpo ad effetto dell'opera, che fin dal suo debutto al Guggenheim di New York, nel 2016, aveva innescato un interessante dialogo col pubblico, chiamato a usarlo e quindi a interrogarlo, sul senso dell'arte e del lusso. Al tempo, aveva inoltre rappresentato il ritorno sulle scene di Cattelan dopo cinque anni lontano.

Un'altra sua versione fu invece rubata nel 2019 dal Blenheim Palace di Woodstock, Regno Unito, residenza natale di Winston Churchill, che lo ospitava per una mostra temporanea, suggerendo anche in quel caso una chiave di lettura artistica. L'oggetto d'uso - reso opulente ma messo a disposizione a tutti, divenuto un feticcio di una vita impossibile (se non per pochissimi) - viene infine sottratto alla disponibilità di chiunque. Beffa per il ricco e per il povero, vittime di delusioni uguali e diverse. Lo stesso Cattelan affermò ironicamente: «Avevo sperato fosse una performance…ma temo di no».

Nell'opera, il gancio col Novecento trova inevitabilmente appiglio nel ready-made di Marcel Duchamp («Fountain»), il celebre orinatoio che nel 1917 aprì l'arte al mondo, includendo nel suo perimetro oggetti prelevati dalla quotidianità ed elevandoli a un ruolo pienamente culturale. Ma il gesto di Cattelan, a ben guardare, non ricalca esattamente quello dell'artista francese. Nel suo caso non è un oggetto banale innalzato ad arte, bensì un oggetto nobilitato - un cesso d’oro - che torna alla sua funzione quotidiana.

Quando esposto, e in funzione, l’esperienza è drammaticamente relazionale, fino all'imbarazzo, con il pubblico che vi partecipa attivamente, abbattendo la barriera nel modo più intimo e grottesco che si possa immaginare. Sfera tematica che riecheggia anche la manzoniana lezione della «Merda d’artista» (1961), esempio di ironia estrema sul valore dell’opera e sulla mercificazione dell’arte. Come in Manzoni, anche per Cattelan il corpo si fa misura del mondo, affilato strumento parodico. 

Del resto, lo stesso titolo, «America», è ambiguo. Un water d'oro, di per sé, raggiunge infatti l'apice del lusso, un'esasperazione ostentativa di quanto si possa essere ricchi, di quanto oltre una soglia i soldi contino così poco che si può investirli in futilità. L'oro - sacro, elitario - si fa pratico e triviale. E così l'opera diviene simbolo di una nazione opulenta, del suo sogno deragliato nel lusso estremo e nella disuguaglianza sociale. È una sorta di parodia dell'1% della popolazione, quello che ha accumulato così tanta ricchezza da non sapere come spenderla. O forse da oggi si.

Davide Landoni, 19 novembre 2025 | © Riproduzione riservata

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