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Maurizio Cattelan, nella campagna pubblicitaria per Arte Generali nel 2019, si copre facendosi scudo con la riproduzione fotografica di «America». Foto: Oliviero Toscani

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Maurizio Cattelan, nella campagna pubblicitaria per Arte Generali nel 2019, si copre facendosi scudo con la riproduzione fotografica di «America». Foto: Oliviero Toscani

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Maurizio Cattelan e il gioco infinito del gabinetto d’oro

La storia di un’opera che ha l’ambizione di mettere in crisi la nozione stessa di valore: economico, estetico, politico

Nel 2011, 130 opere di Maurizio Cattelan vengono appese al soffitto del Guggenheim Museum di New York. Tutta la sua produzione - non a caso la mostra si intitola «All» - piove nel vuoto scavato al centro dell'edificio dall'iconica scala a spirale, retta da cavi di alluminio ancorati alla cupola di vetro di Frank Lloyd Wright. Una manifestazione massiva di ciò che fino a quel momento l'artista italiano aveva creato, la consacrazione spettacolare della sua arte ironica e provocatoria. Così travolgente che, all'apice del successo, Cattelan deciderà di ritirarsi dalle scene, autoimponendosi una pensione anticipata mentre il mondo lo celebrava. Per i cinque anni successivi manterrà un profilo bassissimo, sottraendosi alla ribalta nel momento di massima visibilità.

Chissà quante volte, in quei mesi, avrà pensato se tornare, come tornare. Alla fine decide di farlo nel luogo in cui aveva salutato, al Guggenheim, nel settembre 2016. Se quasi cinque anni prima aveva lasciato il suo pubblico gremito nel cuore del museo con lo sguardo sollevato a sgranare la matassa di opere che galleggiavano nell'aria, ora lo ritrova in coda per il bagno del quinto piano. Tutti volevano vedere, e provare, la sua opera: un water perfettamente funzionante, ricoperto nella sua interezza da una patina d'oro 18 carati, dal peso di 101,2 kg. Un'operazione dal fascino ridicolo, nel senso che mira a suscitare ilarità; le intenzioni, al contrario, sono serissime, sagaci. Le implicazioni concettuali, dunque artistiche, miscelano provocazione e riferimenti colti, riflessione sul linguaggio artistico e ridefinizione dei suoi confini.

Il gancio col Novecento trova inevitabilmente appiglio nel ready-made di Marcel Duchamp («Fountain»), il celebre orinatoio che nel 1917 aprì l'arte al mondo, includendo nel suo perimetro oggetti prelevati dalla quotidianità ed elevandoli a un ruolo pienamente culturale. Ma il gesto di Cattelan, a ben guardare, non ricalca esattamente quello dell'artista francese. Nel suo caso non è un oggetto banale innalzato ad arte, bensì un oggetto nobilitato - un cesso d’oro - che torna alla sua funzione quotidiana. Significativa anche la presentazione che ne fa il Guggemheim nel comunicato stampa della mostra, che parla di «una replica a grandezza naturale, perfettamente funzionante, fusa in oro massiccio». Parlando di replica, il Museo prende una sorta di distanza dalla sua funzione, definendone la natura di opera. Eppure, al tempo stesso, i visitatori sono invitati a utilizzarla realmente, sotto la supervisione di un addetto che ne garantiva l’igiene e la manutenzione ogni quindici minuti. L’esperienza è drammaticamente relazionale, fino all'imbarazzo, con il pubblico che vi partecipa attivamente, abbattendo la barriera nel modo più intimo e grottesco che si possa immaginare.

Maurizio Cattelan: All. Guggenheim Museum, New York, 2011

Sfera tematica che riecheggia anche la manzoniana lezione della «Merda d’artista» (1961), esempio di ironia estrema sul valore dell’opera e sulla mercificazione dell’arte. Come in Manzoni, anche per Cattelan il corpo si fa misura del mondo, strumento parodico. «Whatever you eat, a two-hundred-dollar lunch or a two-dollar hot dog, the results are the same, toilet-wise», scrive in quei giorni The Art Story. Tutti: ricchi e poveri, potenti e invisibili, si ritrovano a espellere l'eccesso. In questo contesto il bagno diventa un luogo dove le differenze si livellano, un obbligo a cui ciascuno, chi più chi meno, dove adempiere quotidianamente. A questo si aggiunge il paradosso di ammantare d'oro, il più prezioso dei metalli, l'oggetto deputato ad accogliere gli umani rifiuti, sporchi e maleodoranti.

Del resto, lo stesso titolo, «America», è ambiguo. Un water d'oro, di per sé, raggiunge l'apice del lusso, un'esasperazione ostentativa di quanto si possa essere ricchi, di quanto oltre una soglia i soldi contino così poco che si può investirli in futilità. L'oro - sacro, elitario - si fa pratico e triviale. E così l'opera diviene simbolo di una nazione opulenta, del suo sogno deragliato nel lusso estremo e nella disuguaglianza sociale. È una sorta di parodia dell'1% della popolazione, quello che ha accumulato così tanta ricchezza da non sapere dove destinarla. E di contro l'amara consapevolezza che per il restante 99% la libertà e il benessere promesso si traducono in un oggetto esclusivo, accessibile solo nel contesto museale e sotto controllo. Ad ogni modo, l'installazione diventa velocemente un gioco, un'esperienza imperdibile per i visitatori, che si mettono in fila per andare nel bagno più ricco del mondo. Cattelan dal canto suo non predica, ma ironizza. Preferisce nascondersi dietro l’ambiguità sfruttando il suo umorismo tragico: dietro la risata, il vuoto; sotto la superficie lucente, la materia più umile dell’esistenza.

Maurizio Cattelan, America, 2016. Courtesy Sotheby's

L'eco grandiosa dell'opera prosegue negli anni successivi, con lo speciale gabinetto che nel 2019 prende posizione al Blenheim Palace di Woodstock, Regno Unito, residenza natale di Winston Churchill, per una mostra temporanea. Qui il lavoro trova un epilogo imprevedibile, con un furto che lo sottrae all'esposizione e al proprietario. Se vogliamo, una svolta che aggiunge un ulteriore livello di paradosso. L'oggetto d'uso - reso opulente ma messo a disposizione a tutti, divenuto un feticcio di una vita impossibile (se non per pochissimi) - viene infine sottratto alla disponibilità di chiunque. Beffa per il ricco e per il povero, vittime di delusioni uguali e diverse. Lo stesso Cattelan afferma ironicamente: «Avevo sperato fosse una performance… ma temo di no». 

Dell'opera vengono fatte delle copie, di cui una si appresta ad essere venduta in asta. Ora che la vediamo comparire sul mercato secondario (il 18 novembre, da Sotheby's New York), ha l'opportunità di aggiungere un capitolo alla sua perenne evoluzione relazionale. Ecco dunque che la stima è proporzionata al suo peso in oro, calibrato sul tasso odierno: 10 milioni di dollari per 101,2 kg. Nel mercato dove il valore è per essenza aleatorio, quest'opera «sceglie» di valutarsi arbitrariamente. Un altro paradosso semantico che porterà chissà dove? Ad ogni modo l'opera rimane iconica: la partecipazione del pubblico, l’esperienza corporea, l’ambiguità tra arte e lusso, tra sacro e profano, tra critica e complicità, fanno di «America» un'opera cruciale, in grado di mettere in crisi la nozione stessa di valore: economico, estetico, politico.

Davide Landoni, 31 ottobre 2025 | © Riproduzione riservata

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La stima di vendita è, per la prima volta nella storia delle aste, proporzionata al peso in oro dell'opera, calibrata al tasso odierno: 10 milioni di dollari, dunque, per 101,2 kg

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