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Esattamente vent’anni fa, nel 2003, le migliaia di persone che da sempre passano ogni giorno per la Galleria di Milano inciamparono letteralmente in un assurdo «incidente d’auto»: una Fiat Uno bianca, con relativa roulotte, erompeva dal pavimento dell’Ottagono centrale, fra cumuli di terra e frammenti del pavimento a mosaico. I vigili decisero di multare l’auto (che mai ci faceva lì?) e due consiglieri comunali chiesero diligentemente che i veicoli fossero rimossi. Grande scandalo e discussioni roventi su tutti i media, come non accadeva dai tempi di De Dominicis alla Biennale di Venezia del 1972 (quando, in «Seconda soluzione d’immortalità», l’artista «espose» una persona Down).
Poi si scoprì che si trattava di «Short Cut» (scorciatoia), installazione di Elmgreen & Dragset promossa dalla Fondazione Nicola Trussardi: la prima delle operazioni «corsare» della Fondazione, istituita nel 1996 da Nicola Trussardi (1942-99) che, alla scomparsa prematura del fondatore, passò nelle mani della figlia Beatrice. Tre anni dopo fu lei, con Massimiliano Gioni, da allora direttore artistico della Fondazione, a imprimere una radicale virata a un’istituzione che all’inizio aveva operato in una sede stabile (Palazzo Marino alla Scala) e confrontandosi con ambiti diversi delle arti.
Oggi la Fondazione Nicola Trussardi festeggia dunque il ventennale della sua nuova vita: nomade e votata all’arte pubblica contemporanea. Da allora ogni anno sono stati realizzati, in luoghi diversi, storici ma spesso sconosciuti agli stessi milanesi, una trentina di progetti di arte pubblica di autori internazionali, da Paul McCarthy a Paola Pivi, da Maurizio Cattelan a Tino Sehgal, da Pipilotti Rist a Fischli & Weiss, fino ai più recenti Jeremy Deller, Sarah Lucas, Ibrahim Mahama e Nari Ward, oltre a due grandi mostre. A Beatrice Trussardi chiediamo di raccontarci la genesi dei progetti con cui la Fondazione da lei presieduta già vent’anni fa ha portato un vento nuovo nel panorama artistico milanese (e non solo).
Dottoressa Trussardi, come e perché è nata la svolta della vostra Fondazione?
Alla scomparsa di mio padre, nel 1999, io studiavo Art Business and Administration alla New York University, un indirizzo di studi che allora non esisteva in Italia. Ero da sempre appassionata di arte perché nostro padre ci aveva spinti a studiarla. Io, però, ero sempre stata più interessata al management dell’arte che alla sua storia. A New York avevo lavorato al Metropolitan Museum, al Guggenheim e al MoMA e, rientrata a Milano, mi resi conto con stupore che per il grande pubblico, qui, l’arte contemporanea si fermava a Picasso. Fino al 2002 proseguii sulla linea di mio padre, seppure introducendo qualche novità, poi, dopo l’incontro fortunato con Massimiliano Gioni, da allora nostro direttore artistico, abbiamo deciso di produrre arte pubblica sul modello del Public Art Fund di New York e di Artangel di Londra. Lo facciamo da mecenati, non da collezionisti, perché noi produciamo le opere, ma queste restano agli artisti. Inoltre, le nostre mostre sono sempre gratuite.
Come finanziate l’attività?
Accanto alle tre socie fondatrici (Beatrice, Maria Luisa e Gaia Trussardi, Ndr), dal 2017 ci sono anche alcune persone che da subito hanno amato il nostro lavoro e l’hanno voluto condividere con noi. Inoltre, non abbiamo i costi di una struttura museale e, per scelta, abbiamo un team che durante l’anno è piuttosto snello, ma che si arricchisce di molte altre professionalità quando realizziamo i progetti. Oltre alle mostre, produciamo quelle che chiamiamo «Incursioni», miniprogetti di breve durata, come i gonfiabili di Jeremy Deller a CityLife nel 2018 o i Caselli daziari di Porta Venezia impacchettati da Ibrahim Mahama nel 2019, o l’intervento a Londra per la prima edizione di Frieze, nel 2003.
Sempre con Massimiliano Gioni avete però realizzato anche mostre grandiose come «La Grande Madre» in Palazzo Reale, per Expo Milano 2015, e «La Terra Inquieta» nel 2017 nella Triennale Milano. E, all’opposto, i «Viaggi da camera» online durante la pandemia.
Sì, ed entrambi sono prova della flessibilità di una struttura agile come la nostra perché, se per la mostra di Palazzo Reale (progetto che ho nel cuore, anche per la sua importanza storica) e per quella della Triennale abbiamo lavorato per due anni, i «Viaggi da camera» sono frutto di una reazione immediata al lockdown. Abbiamo pensato a un progetto online e chiesto ad alcuni artisti di darci la loro rappresentazione di quella chiusura forzata.
Si è da poco concluso il progetto di Diego Marcon al Teatro Gerolamo di Milano. Il prossimo dove sarà?
Non posso risponderle perché non lo so! Noi mettiamo testa e cuore in ciò che stiamo facendo, poi ci dedichiamo al nuovo progetto. Posso solo dire che continueremo con la formula itinerante, perché è molto stimolante: doverci confrontare con luoghi sempre diversi è un modo per rinnovarci continuamente. Ogni progetto è una nuova sfida e una nuova avventura, per noi come per il pubblico.

«A Friend» (2019) di Ibrahim Mahama, Caselli daziari di Porta Venezia, Milano, 2019

«Sacrilege» (2012-18) di Jeremy Deller, CityLife, Milano

«Balloon» (1999-2007) di Pawel Althamer
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