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Glicéria Tupinambá

Cortesia dell’artista

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Glicéria Tupinambá

Cortesia dell’artista

BIENNALE ARTE 2024 | Il Padiglione del Brasile

Per la prima volta ospita una produzione interamente indigena, i cui artisti si concentrano sull'eredità del colonialismo e sulle continue sfide che il loro popolo deve affrontare

Ela Bittencourt

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Nel contesto coloniale il modello dei padiglioni nazionali, proprio della Biennale di Venezia, rafforza le disuguaglianze preesistenti. Nel 2022 i Paesi nordici (Svezia, Norvegia e Finlandia) hanno organizzato un Padiglione Sámi. Quest’anno un team di tre curatori, Arissana Pataxó, Denilson Baniwa e Gustavo Caboco Wapichana, che si occupa dello spazio brasiliano, l’ha ribattezzato Padiglione Hãhãwpuá. È la prima volta che artisti o curatori indigeni occupano il Padiglione brasiliano, e ciò avviene in concomitanza con la direzione artistica di Adriano Pedrosa, primo curatore brasiliano della Biennale.

I tre curatori indigeni sottolineano il forte legame della loro visione con il titolo e il tema della mostra centrale, «Stranieri Ovunque». «Credo che il nostro concetto abbia molto a che fare con il tema di Pedrosa, afferma Wapichana. In passato, o almeno negli ultimi 400 anni, i popoli indigeni sono sempre stati rappresentati da altri. La nostra preoccupazione principale è ora quella di rappresentare il presente». 

I Pataxó (gruppo etnico brasiliano) spiegano come gli indigeni brasiliani siano spesso chiamati «invasori», nonostante siano i più antichi «e legittimi» proprietari di quelle terre: «Questo fa riflettere sul posto ai margini della società brasiliana cui gli indigeni sono stati relegati in cinque secoli di invasione europea, proseguono i curatori. La maggior parte delle comunità vive ancora in situazioni di estrema marginalità, costrette a lottare per i diritti fondamentali come il cibo, la salute e l’istruzione, a causa della perdita dei propri territori tradizionali».

Hãhãwpuá in lingua pataxó significa «la grande terra». Il territorio ancestrale è la patria di oltre 300 popoli indigeni esistenti molto prima della colonizzazione portoghese. «La sfida è di catturare l’enorme ricchezza di lingue e culture native in un’unica mostra, spiega Baniwa. Attraverso le opere degli artisti Glicéria Tupinambá, Olinda Tupinambá e Ziel Karapotó, cerchiamo di tracciare un panorama di tutto ciò che sta avvenendo in Brasile: le poetiche, le pratiche e le ultime tendenze dell’arte contemporanea indigena».

«Negli ultimi anni l’arte contemporanea indigena è esplosa nei musei brasiliani, dando vita a un dialogo con le istituzioni artistiche e il pubblico sui temi di attivismo, difesa dell’arte e questioni sociali e culturali. Temi urgenti visto l’accaparramento delle terre, il degrado ambientale e i massacri dei leader indigeni sotto il precedente Governo Bolsonaro. La violenza coloniale è un tema condiviso da tutti i popoli indigeniQuelle messe in atto dalle popolazioni indigene odierne sono tanto di strategie di sopravvivenza e resistenza quanto processi di rigenerazione», spiega Wapichana.

Il Padiglione parla di questo rinnovamento in termini di riconoscimento e rimpatrio, ricordando che, ad esempio, la Nazione dei Tupinambá, dopo essere stata per lungo ritenuta estinta, è stata riconosciuta ufficialmente dal Governo brasiliano solo nel 2001 e che molte comunità stanno ancora lottando per vedere riconosciute dallo Stato le proprie pratiche spirituali e ancestrali. E anche quando le loro terre sono state riconosciute e delimitate legalmente, sono costantemente soggette a invasioni da parte di minatori, occupanti abusivi e allevatori. 

Il titolo della mostra del Padiglione, «Ka'a Pûera: We are walking Birds», è incentrato sulla Capoeira, nota nel suo significato di antica arte marziale, ma il nome indica anche una specie di uccelli che simboleggia il rinnovamento. «Molte persone vedono il territorio di origine della Capoeira come un terreno inutilizzato, ma in realtà  è il luogo in cui la foresta si rigenera», sottolinea Wapichana, riferendosi al fatto che i popoli indigeni coltivano da tempo la foresta amazzonica in modo sostenibile.

Il Padiglione metterà in evidenza anche altre forme di conoscenza che circolano nelle comunità indigene. Ad esempio, la videoinstallazione di Glicéria Tupinambá, «Fold of Infinite Time», presenta semi e reti da pesca per riflettere sulle interconnessioni tra passato e presente. La videoinstallazione «Balance» di Olinda Tupinambá esplora invece l’entità spirituale, Kaapora, e attraverso essa sul degrado ambientale della terra indigena di Caramuru, avvalendosi di testimonianze dirette e documenti ufficiali. L’installazione «Cardume» (Banco di pesci) di Ziel Karapotó comprende reti, maracas e proiettili balistici per evocare il passato coloniale, ma anche per collegarlo all’attuale lotta indigena contro l’estrazioni dal sottosuolo.

Un’altra lotta in cui sono coinvolti gli artisti è la battaglia per il recupero dei mantelli ancestrali della comunità. Prodotti nel XVI-XVII secolo, i pochi ancora esistenti sono perlopiù conservati in musei stranieri. Recentemente un esemplare, il Manto Tupinambá, è stato restituito dal Museo Nazionale della Danimarca di Copenaghen, dove era conservato dal 1699, al Museo Nazionale del Brasile di Rio de Janeiro. Glicéria Tupinambá, che crea manti con la sua comunità, mostrerà a Venezia le lettere inviate dal popolo Tupinambá di Serra do Padeiro ai musei europei e brasiliani per chiedere il prestito di questi manufatti sacri indigeni.

«Cardume» (2023), di Ziel Karapotó’s. Cortesia dell’artista

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Ela Bittencourt, 24 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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