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Still dal film «Arcadia» (2023) di John Akomfrah

© Smoking Dogs Films. Cortesia di Smoking Dogs Films And Lisson Gallery

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Still dal film «Arcadia» (2023) di John Akomfrah

© Smoking Dogs Films. Cortesia di Smoking Dogs Films And Lisson Gallery

BIENNALE ARTE 2024 | Il Padiglione della Gran Bretagna

Le otto opere di John Akomfrah si basano sulle sue precedenti indagini sui temi della razza, della memoria e dell’identità

Louisa Buck

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John Akomfrah (Accra, Ghana, 1957) è noto per le sue installazioni video multischermo, drammatiche e ricche di stratificazioni, che utilizzano materiale d’archivio e filmati recenti per sfidare le convenzioni della cinematografia ed esplorare temi quali l’ingiustizia razziale, le eredità coloniali, la migrazione e il cambiamento climatico. Residente a Londra fin dall’infanzia, Akomfrah si è fatto conoscere per la prima volta realizzando film documentari sperimentali nell’ambito dell’influente Black Audio Film Collective, di cui è stato cofondatore nel 1982 e con cui ancora collabora. Nel 2019 ha partecipato al Padiglione inaugurale del Ghana alla Biennale di Venezia e l’anno scorso ha ricevuto un cavalierato per i servizi resi alle arti. Per il Padiglione della Gran Bretagna, commissionato dal British Council, ha realizzato otto opere video interconnesse, basate sul sonoro e sulla temporalità sotto il titolo collettivo di «Listening All Night to the Rain».

Come si sente a rappresentare la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia?
Quando me l’hanno detto ne ero assolutamente entusiasta, ma poi è subentrato il panico, perché vado a Venezia da decenni e ho visto molti padiglioni britannici e allora ho pensato: «Che cosa posso aggiungere a tutto questo?». Poi mi sono reso conto che il punto di forza di aver visto così tanti padiglioni e aver accumulato tanta esperienza è di poter instaurare una conversazione con le cose che ho visto e ammirato, e avere una «conversazione totale» con il Padiglione.

L’occupazione del Padiglione si intreccia inevitabilmente con le idee sul nazionalismo. Questo ha influito sul suo nuovo lavoro?
La questione dell’identità nazionale e di chi includerà o escluderà è stata una mia costante preoccupazione e questo lavoro non è diverso. Ma non sono mai stato interessato a colpire o a puntare il dito, non è mai stato lo scopo di nessuno dei miei progetti. Si trattava piuttosto di riflessioni sul passato nazionale e, quando si presentavano situazioni scomode, si cercava di parlarne, perché altrimenti le persone come me non possono sentirsene parte integrante. È necessario creare un percorso attraverso lo spazio nazionale, per potersi sentire a proprio agio nel percorrerlo e nel farlo. Quindi mi preoccupo sempre di alcuni punti fermi: quali sono le storie, le domande, le narrazioni ecologiche, politiche e filosofiche, che devono essere affrontate in questo momento della nostra evoluzione? Sto ancora cercando di collegare le precedenti questioni che mi interessavano, ossia la razza, l’etnia e l’identità nazionale, e di vedere come queste si intersecano a loro volta con altre questioni, ecologiche e non. Questo lavoro è un altro passo in questa direzione, un altro tentativo di chiarire il senso di queste intersezioni.

Lei ha detto che ogni opera che realizza sviluppa aspetti del lavoro che l’ha preceduta. La sua ultima opera importante, «Arcadia» (2023), rifletteva sullo «Scambio colombiano», il trasferimento di piante, animali, merci, popolazioni, tecnologie e malattie tra il Nuovo Mondo e il Vecchio Mondo a partire dal XV secolo. Ci sono elementi di «Arcadia» che sta esplorando ulteriormente a Venezia?
Ci sono domande persistenti che serpeggiano in tutte le opere. Ma a Venezia sorgono anche domande molto specifiche. La questione dei venti, di ciò che i venti fanno e di ciò che metaforicamente e letteralmente viene trasportato dal vento, è quello che mi ossessiona in questo progetto. Ed è molto legato ad «Arcadia» e all’intero «Scambio colombiano». Questa volta non siamo nel XV, XVI o XVII secolo, ma ci sono dimensioni storiche. La nuova serie di opere interconnesse cerca di insinuarsi in ogni interstizio del Padiglione di Venezia. Si tratta di storie e di questioni di identità, ma soprattutto di memoria: la mia e quella degli altri.

Che cosa c’è dietro il titolo del Padiglione, «Listening All Night to the Rain»?
Le due parole chiave sono «ascolto» e «pioggia» e sono entrambe protagoniste. Sono gli agenti coesivi di tutte le opere esposte. Non mi capita spesso di occuparmi di poesia, anche se leggo poesia più di ogni altra cosa, ma il titolo è una frase tratta da una poesia di un poeta cinese dell’XI secolo chiamato Su Shi, noto anche come Su Dongpo, di cui amo l’opera.

Venezia è un luogo che racchiude molti dei temi che lei approfondisce, dalla sua lunga storia di centro del commercio internazionale al fatto che è incredibilmente sensibile ai cambiamenti climatici. Questo contesto ha influenzato il lavoro?
Venezia è l’ospite invisibile in tutti i capitoli di queste opere: è il partner silenzioso. E per tutte le ragioni che lei cita: la sua centralità come parte dell’espansione mondiale del capitale mercantile nel XV e XVI secolo, e naturalmente perché il Padiglione è a Venezia! La fascinazione per quello che si potrebbe definire il «sublime acquatico» è una delle connessioni persistenti che lega l’opera sia ai luoghi contemporanei sia a quelli storici.

Lei ha descritto la sua estetica personale come «bricolage», ovvero come la combinazione di diversi elementi in cui le capita di imbattersi.
All’inizio della lavorazione di quest’opera mi sono rivolto direttamente a una delle figure che hanno plasmato profondamente il mio modo di pensare il lavoro, ovvero Kurt Schwitters. Non ho fatto riferimento a lui direttamente, ma Schwitters ha avuto una grande influenza sulle opere che espongo a Venezia. Alcuni degli aspetti etici ed estetici che ho colto da quella prima iniziazione alla storia dell’arte hanno a che fare con il modo in cui nasce qualcosa di nuovo. Credo che in qualche modo la collisione di elementi diversi e non correlati generi propulsione e fusione. Questa intuizione è diventata un mantra e un credo, perché non è solo un approccio estetico ma anche etico. Si tratta di come le cose coesistono e di come far convivere le cose, comprese le narrazioni e le persone. Si tratta di valorizzare le differenze e di cercare di dare alla differenza, nel senso più ampio del termine, un ruolo e un valore nel proprio lavoro.

John Akomfrah. Foto: Christian Cassiel. ©️ John Akomfrah. Cortesia di Lisson Gallery

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Louisa Buck, 23 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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