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Adriano Pedrosa

Foto: Daniel Cabrel. Cortesia del Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand

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Adriano Pedrosa

Foto: Daniel Cabrel. Cortesia del Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand

BIENNALE ARTE 2024 | Adriano Pedrosa: «Estrangeiros, bem-vindos!»

Il curatore spiega il suo pensiero alla base di «Stranieri Ovunque», la mostra della Biennale di Venezia più eterogenea di ogni tempo: 332 artisti tra professionisti, outsider e riscoperte provenienti da America Latina, Africa, Medio Oriente e Asia 

Adriano Pedrosa (Rio de Janeiro, 1965) è il direttore artistico brasiliano della Biennale di Venezia che si svolge ai Giardini e all’Arsenale dal 20 aprile al 24 novembre. La sua mostra «Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere» comprende 332 artisti (un misto di professionisti contemporanei e artisti valorizzati tardivamente che hanno lavorato soprattutto nel XX secolo) provenienti o residenti in America Latina, Africa, Medio Oriente e Asia

Si tratta della prima Biennale di Venezia organizzata da un curatore nato e residente nel Sud del mondo: dal 2014 Pedrosa è il direttore artistico del Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand (Masp). L’anno scorso il Masp ha presentato la mostra «Storie Indigene», dopo aver realizzato un’altra altrettanto ampia e innovativa, «Storie Afro-Atlantiche», nel 2018. L’attenzione di Pedrosa per i modernismi globali e per la presentazione al pubblico europeo di artisti chiave del XX secolo provenienti dal Sud globale è stata evidente quando a Londra ha curato la sezione «Spotlight» di Frieze Masters tra il 2012 e il 2015. Pedrosa ha anche sottolineato di essere il primo direttore artistico queer della Biennale e anche questo ne ha influenzato l’approccio tematico.

Dottor Pedrosa, che effetto le fa presentare questa mostra, una celebrazione di vari popoli, in Italia, dove il primo ministro è Giorgia Meloni, esponente di una politica molto refrattaria all’immigrazione?
Questa mostra ha un ruolo importante in Italia, ma anche nel Mediterraneo e nel mondo, a causa della crisi migratoria che stiamo vivendo. Ho sempre pensato che sarebbe stato bellissimo fare una mostra, soprattutto in Italia, usando questo titolo come punto di partenza. Ha molte connotazioni diverse: è piuttosto politico, ma anche poetico. In primo luogo, si potrebbe dire che, ovunque ci si trovi, ci sono sempre degli stranieri intorno a noi, ma anche, d’altra parte, che ovunque si vada, si è sempre, in fondo, stranieri a propria volta, in un modo più soggettivo di pensare allo «straniero». Questo evoca anche l’Unheimlich di Freud, il testo sul perturbante, dove ciò che è strano è anche abbastanza familiare. A Venezia ha anche un significato specifico perché è una città di stranieri, una città con circa 50mila abitanti, e questa popolazione triplica nei giorni di punta per via dei turisti. E la Biennale stessa è sempre stata una celebrazione di artisti stranieri fin dal 1895. 

Mi sono esteso ad altre figure spesso interpretate come «straniere». Quello iniziale è lo straniero, il migrante, l’espatriato, il rifugiato, il soggetto diasporico. Ma da questo, mi spingo, prima di tutto, nel queer, perché la prima definizione di «queer» è «strano». Ci sono connessioni in portoghese, francese, spagnolo e italiano tra «estranho» ed «estrangeiro», «étrange» ed «étranger», lo «strano» e lo «straniero». Così il soggetto queer diventa un soggetto di interesse. Io stesso mi identifico come uomo queer. Molti di questi argomenti si riallacciano alla mia vita personale. Io, naturalmente, sono stato uno straniero in molti casi della mia vita, con un passaporto del terzo mondo, una condizione sempre difficile quando si viaggia. Il terzo soggetto è l’artista outsider, cioè lo strano, il diverso, legato anche all’artista popolare, all’autodidatta e, in Brasile e in America Latina, al soggetto dell’«artista popular», l’artista del popolo, per così dire. Infine, gli artisti indigeni, molto importanti in Brasile e in America Latina. E l’indigeno è spesso trattato come uno straniero nella propria terra. Questi sono i quattro principali argomenti di interesse di quello che chiamo il «Nucleo Contemporaneo» della mostra. E poi abbiamo anche un «Nucleo Storico».  

È un approccio corretto quello di investire sé stessi nella curatela di una mostra? 
Non posso sempre farlo, ma cerco sempre di farlo. Al Masp abbiamo dedicato un intero anno agli artisti indigeni. Io non sono indigeno, ma vengo da un Paese e da un continente in cui questo è importante. Inoltre abbiamo dedicato un intero anno alle storie afro-atlantiche. È una parte importante della nostra cultura in Brasile. Qui a Venezia, sì, mi sento abbastanza coinvolto in questi quattro temi. Anche perché sono il primo curatore che vive e risiede nel Sud del mondo. Prima di me, nel 2015, c’è stato il compianto, grande Okwui Enwezor, ma all’epoca viveva e lavorava a Monaco di Baviera e lavorava molto negli Stati Uniti. In questo senso, ho sentito anche un certo grado di responsabilità nei confronti dei tanti artisti, delle tante storie del Sud globale.

È una mostra di arte contemporanea, ma la maggior parte degli artisti è presente nel «Nucleo Storico» ed è rappresentata da un’opera.  
Sì, esattamente: ci sono più artisti storici che contemporanei. Ma il «Nucleo Storico», che conta circa 200 nomi, occupa solo tre sezioni: due nel Padiglione Centrale dei Giardini, dedicate ai ritratti e all’astrazione, e un’altra sezione nelle Corderie dell’Arsenale, dedicata alla diaspora italiana e intitolata «Italiani ovunque». Se guardiamo agli ultimi due decenni, forse addirittura dalla fine degli anni Novanta, vediamo come gli artisti del Sud globale abbiano partecipato in particolare alle biennali, ma anche a mostre nei musei. Li si vede rappresentati da gallerie in diverse parti dell’Occidente: Londra, New York e Parigi. C’è quindi una presenza significativa di artisti del Sud del mondo nell’ambito della contemporaneità, ma questo non accade altrettanto con il XX secolo, che è l’arco temporale della Biennale stessa. 

Ho pensato quindi che fosse interessante proporre questi artisti, perché molti di loro sono figure importanti nei loro Paesi, ma non sono affatto noti a livello internazionale. Conosciamo la storia del Modernismo in Europa e negli Stati Uniti. Io e molti critici e curatori del mio Paese conosciamo la storia del Modernismo nel nostro Paese, forse nella nostra regione, ma non tanto quella dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia. Il «Nucleo Storico» si concentra quindi in gran parte su quelli che chiamo Modernismi del Sud globale, artisti che hanno lavorato nel XX secolo in America Latina, Africa, Medio Oriente e in particolare nel Sud e Sud-Est asiatico, che sono, a mio avviso, uno dei temi più interessanti della storia dell’arte di oggi. Avrei avuto bisogno di dieci anni e di un gruppo di dieci persone per allestire una mostra davvero completa su questo tema, ma è un argomento che ho affrontato negli ultimi dieci o quindici anni circa. La Biennale offre questa incredibile opportunità, con molte risorse, entusiasmo e sostegno da parte di colleghi di tutto il mondo. Ho pensato che fosse una possibilità per proporre qualcosa che è davvero più provocatorio. Ci saranno, ovviamente, molte lacune, ma è piuttosto eccitante vedere come questi artisti non siano mai stati realmente accostati in una mostra come questa.

«Foreigners Everywhere» (2005), di Claire Fontaine. Foto: Studio Claire Fontaine. © Studio Claire Fontaine. Cortesia di Claire Fontaine e Galerie Neu, Berlino

Nella sezione «Italiani ovunque», lei utilizza il sistema espositivo di Lina Bo Bardi progettato per il Masp (opere sospese su tramezzi di vetro trasparente, a loro volta assicurati a blocchi di cemento, ed esposte senza alcun «ordine gerarchico», Ndr). Perché avete scelto di farlo?  
Ho pensato che fosse molto importante anche proporre un rapporto con la storia dell’arte italiana. Vivo in una città e in un Paese dove c’è la più grande immigrazione italiana al mondo, il Brasile, e il secondo Paese è l’Argentina. Inoltre, lavoro in un museo con un forte legame con l’Italia, non solo grazie a Lina Bo Bardi, che ha progettato il nostro edificio e il meraviglioso e radicale sistema espositivo a cavalletto di vetro, ma anche a Pietro Maria Bardi, che è stato il direttore fondatore. Stiamo riunendo 40 artisti italiani, di prima e seconda generazione, che hanno vissuto in diverse parti del mondo, soprattutto in America Latina, ma anche in Africa e in Asia. E naturalmente Lina Bo Bardi, questa straordinaria figura che ha vinto recentemente il Leone d’Oro alla Biennale di Architettura, in memoriam. Per me e per molti di noi in Brasile è la figura diasporica italiana più emblematica. Il suo sistema allestitivo avrà un aspetto incredibile all’Arsenale. Lei è sempre stata interessata a questo rapporto tra i pezzi molto pregiati della collezione europea nel museo e una certa crudezza del cemento, della gomma, dei materiali di vetro nella sua architettura e nei suoi allestimenti. Anche all’Arsenale avremo questa crudezza grazie all’architettura dello spazio con i mattoni a vista. 
Sarà interessante vedere questo contrasto.

I temi del «Nucleo Contemporaneo» si intersecano nella mostra? 
Sì, perché abbiamo anche artisti queer che sono immigrati e artisti indigeni che sono artisti outsider ecc. In termini di allestimento, ho cercato di creare connessioni tra le opere, in particolare nel Padiglione Centrale, dove ci sono sale molto distinte tra di loro. Detto questo, mentre ci sono artisti queer in tutta la mostra, c’è una sezione particolare che ha finito per riunire molti di loro, trans e non-binari provenienti da diverse parti del mondo. È emersa anche una serie di filoni tematici o leitmotiv.

Uno di questi è l’uso di tessuti. 
Anche in questo caso non si tratta di un argomento o di un soggetto della mostra, perché è emerso in modo piuttosto organico, e lo trovo interessante. Quando abbiamo inserito gli artisti nella planimetria della mostra, abbiamo finito per dedicare un’ampia sezione ai lavori sui tessuti. Ma ci sono anche opere di artisti che lavorano con i tessuti nel «Nucleo Storico». Il secondo motivo interessante che, ancora una volta, è emerso in modo molto organico, è quello delle famiglie di artisti legati da vincoli di sangue. Quindi abbiamo perlo iù artisti indigeni che lavorano in gruppi o accordi familiari: per esempio, dal Guatemala Andrés Curruchich e Rosa Elena Curruchich e dalla Colombia Abel Rodríguez e suo figlio Aycoobo (Wilson Rodríguez). Poi ci sono Fred Graham e suo figlio Brett Graham, artisti Maori di Aotearoa/Nuova Zelanda. Ma c’è anche Susanne Wenger, un’austriaca emigrata in Nigeria, e suo figlio adottivo, Sangodare Ajala, un meraviglioso artista che lavora nel tessile e nel batik. Non sono in una sezione, li si vede in tutta la mostra, ma sempre in coppia, nella stessa stanza o uno accanto all’altro. 

Ben Luke, 17 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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