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Nicola Davide Angerame
Leggi i suoi articoliRobert Redford si è spento ieri mattina, 16 settembre, a Provo nello stato dello Utah, a 89 anni, dopo una vita piena, prolifica e giusta. Sì, perché da attore ha scelto ruoli sensibili e impegnati, andando oltre l’etichetta di «sex symbol» per compiere imprese ulteriori, per mettere il suo carisma cinematografico a servizio di cause come il cinema indipendente americano o l’ecologia.
Redford nasce come artista e come sportivo. Prima ancora del divismo, dei riflettori e dei tanti premi, c’è per lui l’arte come libertà, come sguardo critico sul mondo, ma anche come narrazione dei più sfuggenti valori umani. L’attore che non si accontenta, il regista che interroga, l’uomo che resiste: Robert Redford ha tracciato una via oggi seguita da molti suoi colleghi più giovani, anche per questo appartiene alla storia del cinema come pochi altri.
Nato a Santa Monica nel 1936, cresciuto a Los Angeles, studente ribelle e aspirante pittore, Redford si avvicina al teatro dopo un periodo in Europa che lo forma come artista inquieto e curioso. Di sé dirà: «Sono cresciuto in un quartiere povero di Los Angeles. Ho visto cosa significa non avere voce. Forse è per questo che mi sono sempre interessato ai diritti civili e alla politica». Il cinema lo accoglie negli anni Sessanta, prima con ruoli televisivi, poi con film che subito lo segnalano come nuovo volto americano. Il successo internazionale arriva nel 1969 con «Butch Cassidy» accanto a Paul Newman: un western ironico e malinconico che lo consacra al grande pubblico.
Gli anni Settanta sono il suo decennio d’oro, durante i quali matura l’amicizia di una vita, quella con Sydney Pollack, che lo dirige in film straordinari come «Corvo rosso non avrai il mio scalpo» (1972), «Come eravamo» (1973), «I tre giorni del condor» (1975), «La mia Africa» (1985) e un film delizioso quanto raro come «Havana» (1990). Con Pollack gira i film che intrecciano mito americano e coscienza critica. Ai film già citati, si aggiunga «La stangata» (1973), ancora in duo con Paul Newman. Il titolo vince sette Oscar, ma a Robert sfugge la statuetta, che invece otterrà, per un’apparente quanto significativo paradosso, da regista otto anni più tardi. In «Tutti gli uomini del presidente» (1976), interpreta Bob Woodward ed entra con lui nella storia prestando il volto al campione del giornalismo investigativo del Watergate. Redford costruisce così un’immagine di attore anti-divo, che abita lontano da Hollywood e porta sullo schermo storie che mettono in discussione potere e convenzioni.
Gli anni Ottanta lo vedono trionfare come regista. Con «Gente comune» nel 1981 ottiene l’Oscar per la miglior regia. È il suo film d’esordio. Il successivo «Milagro» (1988) affronta il conflitto tra comunità rurali e grandi interessi industriali. Nel 1994 firma un altro capolavoro, «Quiz Show», una riflessione sui media e sulla manipolazione televisiva: il film è acclamato a Cannes e nominato all’Oscar, che gli sarà consegnato nel 2002 alla carriera. Nel 1998 dirige «L’uomo che sussurrava ai cavalli», sul rapporto fra natura e guarigione. «Leoni per agnelli», nel 2007, è il suo pamphlet politico sulla guerra. L’ultimo film da regista, «La regola del silenzio» (2012), è un bilancio sui valori civili delle generazioni passate. La sua carriera di attore prosegue fino agli anni Dieci con scelte coraggiose: «All Is Lost» (2013), un one-man-show di sopravvivenza, e «The Old Man & the Gun» (2018), che segna il suo addio al cinema davanti alla macchina da presa. Ma la sua vera eredità è il suo Sundance Institute e l’omonimo Festival, che fonda nel 1981 con Pollack: un laboratorio che dà voce al cinema indipendente e che cambia per sempre il panorama americano, lanciando registi come Quentin Tarantino, Steven Soderbergh, Jim Jarmusch, Christopher Nolan, Paul Thomas Anderson e altri. Redford investe le proprie risorse per creare uno spazio dove i giovani possano crescere lontano dalle logiche di Hollywood.
La sua vita privata conosce momenti duri, segnati dalla morte di un figlio in tenera età, ma anche il sostegno della prima moglie Lola Van Wagenen, che sarà salvifica in alcuni momenti. Oltre a Pollack, il rapporto artistico e affettivo con Jane Fonda attraversa i decenni: insieme interpretano «A piedi nudi nel parco» (1967), «Il cavaliere elettrico» (1979) e, già ottuagenari, «Our Souls at Night» (2017) presentato alla 74ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
Impegnato ambientalista, Redford combatte a favore delle energie rinnovabili e contro il cambiamento climatico, sostiene campagne per la protezione delle foreste e delle popolazioni native americane, collabora per decenni con associazioni come Nrdc (Natural Resources Defense Council). Nel 2016 riceve dall’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama la Medaglia Presidenziale della Libertà, dopo aver ricevuto nel 2010 la Legion d'onore, la massima onorificenza della Repubblica francese. Per lui, difendere la natura non è un vezzo, ma la prosecuzione coerente della sua visione artistica e civile. Dando addio al set, nel 2018, consegna alla rivista americana «Time» un suo pensiero definitivo: «Ho amato profondamente questo Paese, ma non ho mai smesso di criticarlo. Penso che sia il compito di un artista: amare e criticare allo stesso tempo».
I personaggi che lo hanno reso l’antidivo che è stato, tornano nel giorno della fine a colmare l’immaginario di un cinema, onesto e sensibile, che anche grazie a lui può continuare. E se «Il cavaliere elettrico» fu uno dei suoi pochi fiaschi, non di meno ci sembra di vederlo ancora in groppa a quel destriero da salvare, in fuga dal circo di Las Vegas, modello paradossale di tutta una civiltà, verso le praterie e i deserti dove il grande nulla americano riecheggia ancora di voci, di riti e di spiriti che Robert, a modo suo, ha saputo ascoltare, raccontare e difendere.
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