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Giusi Diana
Leggi i suoi articoliIniziamo dalla fine. Da quella chiave di volta che è la Nota dell’Autore che conclude, prima dei ringraziamenti, l’ultimo libro di Giulio Paolini (Genova, 1940), più un vivace memoir che una compassata autobiografia. Nella nota finale l’autore avverte il lettore dell’arbitrarietà del criterio che lo ha guidato nella presentazione delle immagini che accompagnano il testo: «Non sono contrassegnate da un titolo, né dal luogo o dalla data corrispondenti a quel certo istante. Nessuna didascalia o pur vaga indicazione soccorre il lettore fino alla fine».
E suona come una dichiarazione d’intenti con cui leggere tutta la sua opera. Alla verità oggettiva, con il suo corollario tassonomico, si preferisce una verità altra dove le figure che ci vengono incontro non informano e non illustrano alcunché, ma sono intese come «una sorta di punteggiatura che l’autore intende tenere per sé a scandire le fasi di una memoria privata».
I nove capitoli scorrono veloci tra immagini che contengono enigmi e parole che hanno l’esattezza di una visione adamantina. Nel primo capitolo la rievocazione di un pomeriggio di settembre del 1960 ci presenta tale e quale il momento della rivelazione, in quella che Paolini chiama «la stanza segreta dell’appartamento di famiglia»; lo sorprendiamo intento «a tracciare sulla tela quelle linee a inchiostro nel mio primo quadro: lì presi i voti.» Si tratta di «Disegno geometrico», la tela con la prima quadratura prospettica che ha ispirato poi tutte le altre fino ad oggi. Non è un caso se proprio disegnatore e non artista è la professione indicata nella sua Carta d’identità fedelmente riportata a pagina 12.
Il libro accoglie anche alcune conversazioni, raccolte nel capitolo Voci, dove dialogando con Antonella Soldaini l’artista dichiara la sua ammirazione per Carlo Scarpa, oltre che per Borges, Calvino e Pirandello, definito «un parente di una regione lontana come la Sicilia. Mi è sempre stato familiare».
Ma là dove il libro conquista è proprio nell’intimità di certe pagine che hanno il tono delle Confessioni, come quando ci rivela il piacere di godere della riproduzione fotografica delle statue classiche, di certi chiaroscuri, più che della visione dal vero. Una dichiarazione di amore verso la fotografia definita «quel miracolo costituito dalla possibilità (dall’illusione) di fissare un istante nel flusso inarrestabile del tempo», a corredo una splendida fotografia di Brassaï.
Particolarmente interessante la raccolta antologica di alcuni passi tratti da pubblicazioni monografiche recenti, dove Paolini si rivela attento all’attualità («L’artista non abita nel mondo, ma neppure fuori dal mondo», come altrove dice), esprimendo disappunto per un presente chiassoso, dove gli allarmi e le esultanze vengono amplificate dal mondo della comunicazione. E a proposito di Intelligenza Artificiale confessa di averla interrogata circa il suo modo di operare in relazione alla dimensione della sprezzatura citata da Baldassare Castiglione, riportandone tra virgolette l’accurata risposta.
Non è la prima volta che Paolini pubblica un libro come autore. A partire da Idem uscito nell’aprile 1975 nella collana Einaudi Letteratura, riedito nel 2023 da Electa. Nella prefazione Italo Calvino parlò della necessità del pittore di annullare l’io individuale per identificarsi con l’io della pittura d’ogni tempo, l’io collettivo dei grandi pittori del passato. Un’eco di quelle parole la troviamo nella parte finale del libro dove nei cosiddetti Appunti a capo, la riduzione della molteplicità (apparente) all’unità è dichiarata: «Un quadro è la memoria di tutti i quadri, la copia sempre uguale e sempre diversa dello stesso modello: il Bello.»
Eccomi. Qui dove sono, di Giulio Paolini, 141 pp., ill col., Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino 2025, € 35
Giulio Paolini, «Disegno geometrico» (1960), Fondazione Giulio e Anna Paolini. Foto Mario Sarotto
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