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Aperta fino a fine luglio, l’antologica di Erwin Olaf da Paci Contemporary (la sua prima grande mostra ufficiale in Italia) riunisce un corpus d’immagini che attraversa l’intera produzione del fotografo olandese (Erwin Olaf Springveld, nato a Hilversum nel 1959, vive e lavora ad Amsterdam), apprezzato ovunque per l’intensità dei suoi ritratti e per la forza emozionale delle sue immagini, composte in sapienti mise en scène dai toni onirici e sospesi, di è, al tempo stesso, regista e fotografo.
Difficile sfuggire alle seduzioni di uno scatto come «The Mother» (dalla serie «Dawn»), immersa in un candore latteo, o dei personaggi stuporosi di «Indochine» e di «Keyhole», immobili nelle loro stanze silenziose. E non meno difficile eludere le provocazioni visive di un’immagine come «Pearls» (da «Squares»), con la bellissima modella dalla cui bocca «zampilla» una cascata di perle.
La mostra, presentata in catalogo (Silvana Editoriale) da Walter Guadagnini, segue il fotografo dal 1988, quando con la serie «Chessmen» vinse il primo premio al concorso «Young European Photographer of the Year» e si guadagnò la prima notorietà internazionale, lungo tutti i suoi cicli più famosi, fino a «Palm Springs» 2018, parte di un triplice progetto, con Berlino e Shanghai, che l’ha indotto a uscire infine dallo studio.
Dopo l’uso iniziale del bianco e nero, Olaf si è cimentato anche con il colore: numerosi gli esempi in mostra, da «Paradise» a «Grief» e «Hoper», da «Dawn» a «Dusk» e «Rain». Contemplazione e mistero sono la cifra delle sue immagini inquiete e inquietanti, come accade nel citato «Palm Springs», dove figure vestite come negli anni ’60 abitano luoghi che allora non esistevano: una sorta di crepa, dunque, in un mondo in apparenza perfetto. Ma, come spiega Olaf, «ciascun essere umano porta con sé una rottura interiore. Anche se indossa il miglior vestito della domenica».

Erwin Olaf, «The Kite», 2018 (particolare). © Erwin Olaf
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