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Shit & chic

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Franco Fanelli

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Gli artisti, si sa, sono come certi bambini: egocentrici, capricciosi, piagnoni, ingordi, fastidiosi ecc. Diffusa, tra alcuni di loro, è la regressione alla freudiana fase anale: basti pensare alle «merde d’artista» manzoniane. Dicono i manuali che se è normale che nella fase anale il bambino provi interesse e piacere per le proprie deiezioni, l’irrisolta elaborazione di questo stadio di crescita può determinare una «fissazione anale espulsiva»; e se i genitori si dimostrassero troppo permissivi, il bambino potrebbe essere ispirato a sganciare quanto di dovere in luoghi impropri.

Non ci è chiaro se la «tendenza alla manipolazione» che si manifesterebbe nella fase adulta di questi individui sia esercitata sulla psiche del prossimo o sul materiale espulso: se fosse valida anche la seconda opzione, da piccoli devono avere avuto problemi fior di artisti come Franz West, vista l’inequivocabile forma di certe sue sculture, o Kiki Smith, autrice di «Tale», defecazione a lungo metraggio sviluppata nella regressiva camminata carponi di una figura femminile.

Anche Cattelan deve avere avuto genitori assai permissivi, se ogni occasione è buona per parlare di cacca: l’inventore della rivista «Toilet paper», nonché curatore della mostra «Shit and Die», non poteva celebrare il suo ritorno sulle scene che con una scultura in forma di wc d’oro utilizzabile dai visitatori del Guggenheim di New York. Un geniale ossimoro, se vogliamo: festeggiare una rentrée con il simbolo della «ritirata».

Ora è il turno di Julie Verhoeven con «The Toilet Attendant... Now Wash Your Hands» nelle toilette di Frieze London: l’opera, spiega l’autrice, si svolge nel più egualitario tra gli spazi di una fiera, dove in effetti un visitatore cassintegrato potrebbe esercitare il suo sforzo viscerale quasi gomito a gomito con Monsieur Pinault qualora l’impellenza del bisogno avesse impedito all’ipermilionario collezionista di raggiungere in tempo utile la Vip lounge. La Verhoeven, inoltre, vuole omaggiare l’eroica dedizione di una figura professionale tra le più marginali, l’addetto/a alle latrine, quella persona che cerchiamo di non guardare negli occhi quando lasciamo nell’apposito cestino il nostro obolo e veloci e un po’ vergognosi (e domandandoci se la cifra lasciata sia quella giusta) raggiungiamo l’uscita. L’autrice vuole infatti trasformare i gabinetti in uno «spazio per riflessioni critiche» sui lavoratori meno visibili e gratificati. Non sappiamo ancora se tutto accadrà nel pieno dell’agibilità delle toilette (forse no, data l’imprevedibilità del sottofondo sonoro e olfattivo).

Di certo la Verhoeven arriva in ritardo. Senza scomodare Manzoni, Franz West, Kiki Smith o Cattelan, c’era arrivato prima Fonzie, che aveva il suo ufficio nei bagni dell’immortale bar «Arnold’s».

Franco Fanelli, 08 ottobre 2016 | © Riproduzione riservata

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