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«Due putti vendemmianti» (1610 ca) di Battistello Caracciolo

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«Due putti vendemmianti» (1610 ca) di Battistello Caracciolo

Se provi e riprovi trovi Battistello

Va introdotta una distinzione tra ricerca significativa e ricerca inutile: la prima aggiunge qualcosa alle conoscenze già acquisite, la seconda si limita a riproporre il «déjà dit»

Fabrizio Lemme

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Nel Museo di Capodimonte a Napoli ha da poco chiuso i battenti la mostra monografica su Battistello Caracciolo («Il patriarca bronzeo dei Caravaggeschi: Battistello Caracciolo (1578-1635)», 9 giugno-2ottobre) che ha permesso di esplorare a fondo, con l’esposizione di circa 80 opere di varia provenienza, il maggiore pittore napoletano del secolo XVII o almeno quegli che, insieme a Luca Giordano, si divide il primato nel secolo d’oro della pittura napoletana. La cui riscoperta, dovuta al giovane ma già grande critico Roberto Longhi, risale al 1915.

Al saggio iniziale sono seguiti numerosi altri studi e altre rivisitazioni: Battistello è ormai un pittore largamente esplorato e riconosciuto, soprattutto per merito di Stefano Causa, che a lui ha dedicato un’ampia e informata monografia. Perché una caratteristica della scienza delle arti figurative nei nostri giorni è proprio questa: a una scoperta iniziale seguono altri saggi, fino a quando il panorama dell’artista non sia stato compiutamente esplorato.

A partire da Galileo Galilei e dall’Accademia del Cimento (XVII secolo), la scienza è divenuta infatti sperimentale: ai teoremi astratti si sono sostituite ipotesi concrete e su queste si costruisce il sapere umano. Non per nulla l’Accademia del Cimento assunse a proprio motto il detto estrapolato dal Canto III del Paradiso: «Provando e riprovando». Non esiste aforisma migliore per esprimere l’incessante divenire della ricerca scientifica.

A questo punto va introdotta una distinzione tra ricerca significativa e ricerca inutile: la prima aggiunge qualcosa alle conoscenze già acquisite, la seconda si limita a riproporre il «déjà dit». Ma quel che dico ha un valore di prolegomeno, come («si parva licet componere magnis») il famoso scritto kantiano Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza.

Ho da tempo superato gli ottant’anni e quindi le mie riflessioni tendono ormai a valori assoluti: in questo contesto io scrivo un articolo sul motto «provando e riprovando», cercando in tal modo di sottolineare il valore problematico della scienza e dando un significato più ampio a una ricerca storico artistica. Ma il presente scritto è anche un’esortazione alla lettura: è importante ampliare i propri orizzonti e passare dal particolare all’universale.

Il visitatore della mostra avrà scoperto allora nuovi aspetti e nuovi orizzonti su Battistello Caracciolo, che fu confuso, al momento della sua scoperta, con un ignoto artista, forse da identificare in Abraham Charles Begeyn, il cosiddetto «Maestro delle capre», dal suo tema pittorico prediletto, che siglava le sue opere «CAB» (al punto di essere confuso con Annibale Carracci Bolognese, come accadde a uno storico dell’arte pure illustrissimo quale Maurizio Calvesi). Oggi egli è reputato tra i massimi esponenti della pittura napoletana del Seicento, insieme a Luca Giordano, a Massimo Stanzione, a Jusepe de Ribera detto «Lo Spagnoletto», e a tanti altri comprimari.

«Due putti vendemmianti» (1610 ca) di Battistello Caracciolo

Fabrizio Lemme, 20 ottobre 2022 | © Riproduzione riservata

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