L'enorme schermo luminoso installato nell'arengario di Palazzo Vecchio per la manifestazione «Secret Florence»

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L'enorme schermo luminoso installato nell'arengario di Palazzo Vecchio per la manifestazione «Secret Florence»

Se Ai Weiwei porta i migranti nel cuore di Firenze

Palazzo Strozzi rivestito di gommoni per la mostra dell'artista cinese che aprirà venerdì. E si riaccendono le paure della città «violata» dall'arte contemporanea

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Laura Lombardi

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Firenze. Polemica locale divenuta polemica nazionale: dopo Koons e Fabre nell’arengario di Palazzo Vecchio, arriva Ai Weiwei a rivestire di gommoni Palazzo Strozzi, installazione concepita nell’ambito della mostra «Ai Weiwei. Libero» dal 23 settembre al 22 gennaio. Così la polemica scorre su due binari che però pericolosamente si intersecano: chi non ama vedere le finestre del palazzo quattrocentesco offuscato dalla plastica dei gommoni (che in realtà ne ricalcano perfettamente la struttura) appellandosi al buon gusto, alle brutture del contemporaneo eccetera; e chi invece si scaglia contro il messaggio che trasmettono, anche qui tuttavia dividendosi in due fazioni: gli oppositori al fenomeno dell’esodo, favorevoli alle barriere, e coloro che invece partecipano del dramma dei migranti, ma obiettano che Ai Weiwei è un cinese ormai ricco e famoso e trovano la sua azione commerciale, quindi non troppo in linea col messaggio provocatorio che l’opera esprime.

Il vertice è raggiunto dall’articolo sul quotidiano «Libero» che accusa Firenze di sfregiare la sua storia, di offendere Brunelleschi e Michelangelo e consiglia di portare ai cinesi «modellini dei nostri capolavori» per educarli alla bellezza. Andrebbe forse spiegato al giornalista che, se lui si fosse trovato a esser contemporaneo di Brunelleschi e Michelangelo, li avrebbe condannati a priori: il primo per aver voluto far stare in piedi una cupola alterando totalmente i metodi costruttivi di allora, il secondo per aver costretto la figura umana a torsioni impensate per gli equilibri del primo Rinascimento. E qui non si intende mettere i suddetti geni sullo stesso piano estetico di Ai Weiwei (non si vuol entrare in merito a questo), ma solo attirare l’attenzione sul maggior rispetto e minor diffidenza che si aveva nei secoli precedenti nei confronti degli artisti contemporanei. Al medesimo articolista andrebbe anche chiarito che i cinesi di nostri modellini ne hanno anche troppi, tanto è vero che arrivano qui a fiotti a studiare arte. Anzi sono proprio quei modellini, col sedere del «David» di Michelangelo in miniatura in vendita ovunque, a fare di Firenze un enorme bazar di paccottiglia ben più deturpante dei gommoni di Palazzo Strozzi (peraltro installazione effimera, come fortunatamente effimero è l’enorme schermo luminoso fluorescente nell’arengario di Palazzo Vecchio, installato per la manifestazione «Secret Florence»).

E poi, se proprio polemica si vuole fare: ma è davvero più terribile la plastica arancione dei gommoni rispetto a certi interventi di dialogo con la tradizione, come la mastodontica base in marmo che sorregge la tartarugona di Jan Fabre in piazza della Signoria? Basamento fatto scolpire a Carrara (e quindi in linea con una tradizione secolare) e portato qua con chissà quale spesa complessiva? In questo caso il dialogo divien proprio parola usurata: non è più quel dialogo profondo, sul piano del pensiero e non della forma, che Lara Vinca-Masini cercava quando concepì e curò la memorabile e incompresa (dai fiorentini) mostra «Umanesimo, disumanesimo» nel 1980, con installazioni di artisti internazionali nei luoghi storici di Firenze. Ma Firenze è divenuta timorosa e contraddittoria. Così, si indice un concorso nel 1998 per la pensilina di uscita degli Uffizi, su piazza Castellani: vince Isozaki, ma la pensilina a oggi ancora non esiste, perché le polemiche cittadine, sempre in nome del «decoro», l’hanno bloccata. Peccato che, proprio di fronte a dove doveva sorgere la pensilina, c’era l’edificio del cinema Capitol, sopraelevazione della seicentesca Loggia del Grano, costruito tra gli anni Trenta e i Cinquanta con interventi architettonici e di arredo di Italo Gamberini e di altri artisti: l’edificio, acquisito da una società del Gruppo Benetton per essere trasformato (col cantiere aperto nel 2000, e di quel che si è distrutto restano solo le foto dell’Archivio Michelucci) in un centro commerciale e polifunzionale, era pronto ad accogliere flussi di turisti fuoriuscenti dalla pensilina, che, non essendoci mai stata, l’ha visto fallire. Però la passione commerciale resta, perché la Manifattura Tabacchi è stata venduta recentemente agli americani, anziché divenire un centro d’arte contemporanea, e forse la stessa sorte prima o poi toccherà al Meccanotessile: luoghi che a Berlino o Londra sarebbero stati sfruttati assai diversamente e pure con profitto.

Domina quindi la paura di perdere un’identità, quella antica, ma che ora è ormai divenuta finto antica, finto rinascimento, finto medioevo, finto tutto, l’identità che metterebbe a rischio la vendita del deretano del «David» in miniatura. Ma c’è anche dell’altro: c’è chi dice, «i gommoni non mi emozionano, il dramma dei migranti poteva essere altrimenti espresso», «Ai Weiwei ci guadagna, ci specula, è solo provocazione». Intanto l’arte concettuale non emoziona, poi, certamente, ci sono gli artisti impegnati politicamente (e lo stesso Ai Weiwei è considerato tale), ma il punto non è questo: è che agli artisti non è mai stato chiesto di essere filantropi (se lo sono è meglio, chiaro), si esprimono, punto. E i gommoni non devono esser confusi con un intervento di arte pubblica. E per quanto riguarda l’emozione: emoziona forse l’«Urinatoio»? Forse ora, che ha cent’anni, e che ha perfino acquisito una sua «aura»… Ma la «Brillo Box» a cui un filosofo come Arthur Danto avrebbe poi dedicato migliaia di pagine, credo dovette apparire un po’ muta e per nulla emozionante a chi la contemplò per la prima volta, nel 1964, esposta alla newyorkese Stable Gallery. La reazione di fronte a opere concettuali è semmai intellettuale, di fastidio, di disagio. Dei gommoni forse non rimarrà nulla in un domani, ma l'intervento ha comunque un suo significato e a Firenze non nuoce esser «violata» da accadimenti simili, che corrispondono peraltro a una realtà, ovvero la potenza del mondo cinese e la sua presenza nel mondo occidentale.
Chi insegna arte sa quanto siamo invasi da studenti cinesi: la Cina ci guarda, ci legge ci interpreta. Eccola.

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«Reframe» (Nuova cornice) è l'installazione di Ai Weiwei sulla facciata di Palazzo Strozzi a Firenze. Foto di Alessandro Moggi

«Reframe» (Nuova cornice) è l'installazione di Ai Weiwei sulla facciata di Palazzo Strozzi a Firenze. Foto di Alessandro Moggi

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Laura Lombardi, 19 settembre 2016 | © Riproduzione riservata

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