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Sconfinanti, compresenti, concertanti

Gli intrecci tra le arti nell’Ouverture della nuova stagione, tra personali e collettive, di dodici gallerie

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Franco Fanelli

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Dove finisce il design e dove inizia la scultura? Negli ultimi anni l’interrogativo si è fatto sempre più frequente e uno degli artisti che lo pone con maggiore evidenza è Ferdi Giardini (Torino, 1959), di scena dal 21 settembre al 20 ottobre da Riccardo Costantini, gallerista che non perde d’occhio i genii loci torinesi (la precedente mostra era dedicata a Radu Dragomirescu). L’autore, per salvaguardare un certo effetto sorpresa, non vuole sbilanciarsi troppo sul contenuto di questa sua personale, intitolata «InnSaei», titolo tratto da un film diretto dalle islandesi Hrund Gunnsteinsdottir e Kristín Ólafsdóttir, dedicato alle potenzialità dell’empatia e dell’intuito ai fini della comunicazione tra gli esseri umani. Per ora sappiano che in ognuna delle tre stanze della galleria ci sarà un nuovo lavoro; nelle prime due saranno allestite opere luminose (in alluminio, acetato, vernice nera, vernice fotoluminescente e led), mentre nella terza stanza l’attenzione sarà concentrata sulle forme, che appariranno prive di sorgenti luminose. Si tratta di una delle dodici mostre che il 21 settembre, dalle 18 alle 22,30, si inaugurano contemporaneamente per  l’edizione 2017 di «Ouverture», l’ormai tradizionale appuntamento con il quale le gallerie del circuito TAG (Torino Art Galleries) festeggiano l’apertura della nuova stagione.

Ai confini tra design, scultura, fotografia e disegno si collocano anche le opere di Greta Pasquini (1970), con la personale «Mending» (rattoppi, un’espressione che ben sintetizza il modus operandi, basato su una meticolosa e preziosa manualità, nella quale è spesso protagonista il cartone) allestita sino al 21 ottobre da Weber & Weber. E se la Pasquini ha una formazione in ambito architettonico, sono sculture abitabili e «viventi» (pulsano per effetto di motori che gonfiano pareti di «casette» in tessuto oppure emettono suoni smorzati) quelle di Per Barclay, tra le punte di diamante della galleria Giorgio Persano, dove espone sino al 14 ottobre. Apre e chiude la mostra un «memento mori», con teschi in bronzo montati su aste e un trittico fotografico che raffigura un cimitero militare, lucida riflessione su tempi, come i nostri, che non concedono spazi all’utopia. Sempre in tema di compresenza tra arti e mestieri diversi, una delle mostre imperdibili nell’autunno torinese è quella, curata da Valerio Tazzetti (titolare della galleria) e da Nicola Davide Angerame di Giovanni Gastel (Milano, 1955) da Photo & Contemporary sino al 28 ottobre. Il fotografo nipote di Luchino Visconti (al quale deve parte della sua formazione giovanile) e affermatosi anche nell’ambito della moda, propone qui una serie di «Vintage Polaroids 1981-1997». Gastel, folgorato in gioventù dalla Pop art, in queste opere era ispirato da una costante e arguta vena dada-surrealista, con ironici ammiccamenti feticisti e inquietanti metamorfosi, tra kiwi come vulve e bocche di diamanti. Il tutto nel rispetto della «filosofia» della foto istantanea: «La Polaroid produce un’interruzione del tempo che crea una cristallizzazione e lo fa con una potenza che il negativo non ti può dare. Per me significava vivere nella tensione data dalla sensazione di come il fotografo si giochi tutto in quel momento...Sai che quell’attimo è bruciato, finito per sempre». L’allestimento abbina a figure femminili una serie di still-life che anticipano l’estetica di tanta comunicazione oggi d’avanguardia, a partire da quella della rivista «Toilet Paper» di Maurizio Cattelan.

Non mancano, nell’Ouverture concertata, proposte legate alla pittura: Dany Vescovi (Milano, 1969) è sino al 31 ottobre da Febo e Dafne; lo statunitense Sam Falls (1984) torna da Franco Noero, nella sede di via Mottalciata 10/b, sino al 7 ottobre; da Peola, sino al 28 ottobre, espone invece Gabriele Arruzzo (Roma, 1976). Quest’ultima mostra è un altro esempio di intrecci tra ambiti al tempo stesso contigui e lontani. Concentrandosi sul tema dell’Arcadia, ideale rifugio per letterati e artisti tra XVII e XIX secolo, epoche di traumatici mutamenti politici, sociali ed economici che avrebbe portato alla civiltà industriale e al capitalismo, Arruzzo evoca serene full-immersion nella natura, tra malinconia e riflessioni sul concetto del vedere e sul ruolo dell’artista. Lo fa con un linguaggio nel quale il tratto delle incisioni sette-ottocentesche, veicolo di tanta cultura pittorica, flirta con quello del fumetto. Il tempo, la visione, insieme forse alla transitorietà di cose e pensieri hanno un ruolo anche nel duetto offerto sino al 28 ottobre da Raffaella De Chirico Arte Contemporanea. La gallerista punta su un affascinante confronto generazionale, ma anche su un raffinato abbinamento denso, per chi li sa cogliere, di rimandi reciproci. Da una parte è protagonista Elena Modorati (Milano, 1969), che racchiude nella cera pensieri e scritture, sfruttando l’opacità e l’ambiguità offerte da questo materiale. Percezione e memoria sono tra le muse dell’artista milanese, che nelle sue opere richiama oggetti come cannocchiali, finestre e archivi. L’opacità diviene allora «velo», che impone un limite, una sospensione dedicata alla riflessione, in un mondo in cui la visione è diventata tanto vorace quanto superficiale. Simone Scardino, torinese classe 1995, è uno dei nuovi artisti cresciuti nella sempre più prolifica Accademia Albertina. La processualità è spesso al centro del lavoro di Scardino, che spazia dalla grafica alla scultura. Nell’occasione presenta un’opera dedicata al solstizio d’estate, al giorno più lungo dell’anno, il 21 giugno, durante il quale il sole, dall’alba al tramonto, ha impresso il suo percorso sulla superficie di una corda sulla quale Scardino ha applicato di volta in volta, a ogni ora, una sostanza fotosensibile. Ne è risultata una linea blu che ha catturato quello che l’artista definisce «calendario cromatico». Le restanti gallerie puntano su mostre collettive.

In Arco, sino al 31 dicembre, celebra il suo primo trentennio di attività, che ha spaziato da superstar come Peter Halley ed Enzo Cucchi al lancio di quelli che all’epoca erano giovani promesse, come Daniele Galliano e Stefano Arienti. La ben più giovane Luce Gallery coglie invece l’occasione per aprire la sua nuova sede in largo Montebello 40, chiamando a raccolta, sotto il titolo «No Evidence of Sign», Stephan Balkenhol (con un dipinto ottenuto grazie a incisioni su legno), Margo Wolowiec (immagini tratte dal web e reinterpretate con un lavoro di tessitura), Chris Hood (con una pittura ottenuta per «trasudamento» del colore da un verso all’altro della tela) e Hugo McCloud (anch’egli autore di un’opera ottenuta a partire da un blocco di legno intagliato).

Gagliardi e Domke, sino al 27 ottobre, invitano a un rilassante «girovagare tra la collezione» della galleria, mentre Norma Mangione punta sul tema dell’angolo,  uno spazio «critico» dell’arte installativa, della scultura, della fotografia e della pittura. «Corners/In Between», sino al 28 ottobre, riunisce opere di Francesco Arena, Richard Artschwager, Talia Chetrit, Daniel Faust, Francesco Gennari, Paolo Icaro, Jochen Lempert, Robert Mapplethorpe, Landon Metz, Maurizio Nannucci, Richard Nonas, Giulio Paolini, Pratchaya Phinthong, Steve McQueen, Fred Sandback, Rosemarie Trockel e Franz Erhard Walther.

Franco Fanelli, 08 settembre 2017 | © Riproduzione riservata

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